Il lato dark del gin: intervista con Anshuman Vohra, american dreamer

Abito elegante, ventiquattrore alla mano, Anshuman Vohra arriva all’appuntamento nel giardino del Bulgari Hotel di Milano spaccando il minuto. Si siede, appoggia una bottiglia di gin sul tavolo. Bulldog. Il nome stampato in bianco sulla bottiglia nera di vetro bombato riassume il carattere del distillato. Aggressivo, ma con un design minimal. Headquarter a New York e distilleria in Inghilterra. Gli ingredienti arrivano da nove diversi paesi, compresa l’Italia (dove da pochissimo è iniziata la distribuzione, da parte della storica Illva di Saronno). E la sua storia è quella di un “american dream” che diventa realtà.

Perché ha scelto di produrre gin? Non era più semplice pensare a una nuova vodka? Il consumo è maggiore…
«Il gin in effetti è stato un salto nel buio, ma ho lavorato fino a 12 ore al giorno su questo progetto perché fa parte della mia storia. Mio padre era un diplomatico, viaggiava molto, e io con lui. Dall’India ci siamo spostati in Asia, poi in Africa e negli States. Dopo il lavoro lui beveva whiskey o gin & tonic. Io avevo 15 anni, ovviamente il whiskey era troppo forte per me ma il gin & tonic mi era concesso. Ho imparato ad apprezzare le migliori tonic water e decine di gin diversi. Ho continuato a berlo anche al college e poi quando lavoravo a New York comeinvestment banker. Ma non ero molto convinto della qualità. E spesso il giorno dopo mi svegliavo con il mal di testa. E la colpa non era solo della quantità».

Quindi l’idea di produrre gin è nata al bancone di un bar.
«Esatto. Dieci anni fa fondevo società di altri, aiutavo a creare nuove imprese. Ma il mio sogno era stare dall’altra parte, avere un mio brand. In quel periodo il giorno che preferivo era il venerdì: dopo il lavoro andavo in qualche locale e ordinavo tre Martini prima di cena; poi, a volte, la cena saltava e i Martini diventavano sei. Una sera ordinai un gin & tonic e un amico, con in mano un vodka orange, mi disse “Mio nonno beve gin& tonic, sei vecchio”. Cercai di fargli capire che il gin è per gente sofisticata che ha stile anche nel bere, chiesi il consenso del barista ma lui scosse la testa e mi disse che quello era il primo gin & tonic che serviva in tutta la settimana.  Mi fece vedere le bottiglie: c’erano 22 tipi di vodka e solo 2 di gin. Dovevo riflettere. Negli Stati Uniti in quell’anno, era il 2004, il rapporto tra il consumo di vodka e quello di gin era 12 a 1».

II rischio c’era. La vodka va bene con qualsiasi ingrediente. Il gin invece o lo ami o lo odi.
«È vero. In quel periodo il gin negli Usa non aveva successo perché la maggior parte dei prodotti sul mercato aveva una gradazione alcolica alta, fino al 47%, e poi il gusto del gin è unico, rischia di non piacere a tutti. Ma la più grande rovina per un gin tonic di classe è un’acqua tonica sbagliata: negli States troppi bar usano la tonica in shot gun o alla spina. Davvero pessima».

Quanti “no” si è sentito dire?
«Tanti. All’inizio è stato quasi un porta a porta. La risposta era sempre la stessa: “Sei matto? Nessuno chiede il gin”. Poi la storica distilleria G&J Greenall mi diede fiducia e il progetto decollò».

Però ci vuole qualcosa di speciale.
«Il segreto sono 12 ingredienti naturali, che derivano sempre dalle stesse coltivazioni, e quattro processi di distillazione. Ginepro e iris arrivano dalla Toscana, il coriandolo dal Marocco, i limoni dalla Spagna, la lavanda dalla Francia. Poi ce ne sono due esclusivi: dragon eye e foglie di loto dalla Cina. Un tocco personale, mi ricordano i viaggi di quand’ero bambino».

Chi sono i maggiori bevitori di gin?
«A sorpresa la Spagna batte anche gli inglesi, che hanno una lunga tradizione. Ma credo che anche l’Italia sia un terreno fertile per il Bulldog. Gli italiani amano mangiare e bere bene e spendono per avere la massima qualità».

Testo Annalisa Testa