Matteo Cibic: il designer che non vuole essere capito
Credits: Giovanni Gastel

Matteo Cibic: il designer che non vuole essere capito

di Tiziana Molinu

Protagonista alla Design Week con “My BlaWhere Vision” in collaborazione con Blauer Footwear, Matteo Cibic ci ha raccontato cosa si cela dietro il suo processo creativo, ma anche tanto altro

“Se vieni pienamente capito, probabilmente, vuol dire che non dici cose troppo interessanti.” Matteo Cibic non cerca di essere capito, quanto piuttosto di sorprendere, spiazzare, condurre altrove. Come un regista che costruisce piccoli set teatrali (le sue parole, non mie), Cibic dirige visioni che nascono da un caos fertile, un brainstorming fatto di oggetti assurdi, creature antropomorfe, colori vibranti e accostamenti stridenti. Visioni che sembrano uscite da un universo parallelo dove Ettore Sottsass incontra Wes Anderson per un tè surreale.

MATTEO CIBIC

Eppure, c’è qualcosa di estremamente familiare nel suo lavoro, un’eco lontana di design italiano degli anni Sessanta, quando il progetto era gioco e manifesto, provocazione e poesia. Cibic sa essere tutto questo, ma senza la pretesa di definirsi. Le sue ceramiche dalle forme ironiche e bizzarre, i mobili dalle geometrie impossibili, gli oggetti che sembrano avere un’anima propria: tutto parte da un’intuizione, un’immagine fugace. È come se ogni pezzo fosse il frammento di un racconto più ampio, un film in cui lo spettatore è libero di immaginare il resto della trama.

Nel corso della sua carriera, Cibic ha attraversato mondi diversi – dalla moda al design, dall’arte alle installazioni – con una coerenza propria, non dettata dalle regole del mercato ma da un impulso autentico a creare. Non stupisce, allora, che abbia collaborato con alcuni dei brand più influenti al mondo, portando la sua visione in territori inesplorati. Perché per lui, progettare è dare vita a scenografie che non devono per forza essere comprese, ma vissute. Interpretate.

“Non ho mai cercato di comunicare qualcosa di definito,” mi dice. “Lascio che siano gli oggetti stessi a parlare. Se poi qualcuno ci vede un significato, tanto meglio.” Ma il significato, nel mondo di Cibic, non è mai unico. È mutevole, sfaccettato, come il riflesso di un prisma sotto una luce cangiante.


Quando è iniziato il tuo rapporto con l’arte e come hai capito che sarebbe stata questa la tua tua strada?

“Già da bambino realizzavo piccole sculture. Poi, intorno ai 14-15 anni, ho iniziato a frequentare Milano negli anni ’90 e successivamente ho studiato arte a Londra, dove sono rimasto affascinato dalla scena della Young British Art nei primi anni 2000. Ho proseguito i miei studi a Venezia e poi alla Fabrica, il centro di ricerca del gruppo Benetton. Da lì ho cercato di viaggiare il più possibile per scoprire aziende, artigiani e artisti che lavorano con materiali molto diversi, spesso in India, Brasile e Africa. Questo mi ha portato a collaborare con artigiani in zone remote, ma anche con aziende di alta tecnologia”.

Qual è il viaggio che ti ha colpito di più, il più impattante per il tuo lavoro?

“Rispetto alla mostra attuale, penso al mio ultimo viaggio in Brasile, dove mi sono immerso nella foresta e nella natura. Mi sono reso conto di quanto, nella mia vita, abbia raramente avuto l’opportunità di entrare pienamente in un ecosistema nativo, con una biodiversità così ricca ed eterogenea. Questo mi ha fatto riflettere su come, nel nostro quotidiano, ci impegniamo a creare artefatti che alludono a un bisogno primordiale di vivere in quei contesti, pur non appartenendovi più. Da qui nasce l’idea di progettare esperienze e spazi interni estremamente ricchi e variegati, che evocano quei paesaggi naturali ai quali non siamo più abituati, soprattutto nelle realtà urbane”.

Veniamo alla Design Week e al tuo rapporto con Blauer e Blauer Footwear… che ci puoi dire a riguardo?

“Ho appena inaugurato la mia mostra alla Fondazione Rovat (aperta fino al 13 aprile ndr;), un’esposizione che raccoglie vent’anni di progetti sul rapporto tra uomo, natura e mondo vegetale. La Design Week poi è sempre più narrativa, spettacolare ed esperienziale, con installazioni di grandi nomi come Bob Wilson e Paolo Sorrentino, che esplorano spazi e luce con un approccio completamento diverso. Con Blauer, invece, abbiamo radici comuni legate al territorio: siamo entrambi di Vicenza, condividiamo molte amicizie e valori. Con Blauer Footwear abbiamo avviato un percorso che va avanti ormai da qualche mese. Abbiamo creato questo Teddy, simbolo che raccoglie sogni e visioni, viaggiando per l’Italia e diventando un contenitore di desideri in continua evoluzione e movimento.

Il tuo lavoro ha sempre un’anima ludica. Quanto è importante il gioco nella tua creatività?

“Ritengo che la vita sia estremamente breve, e per questo non vale la pena trascorrerla nella tristezza. Abbiamo bisogno di felicità e gentilezza anche all’interno delle nostre case, soprattutto oggi, in un’epoca in cui possediamo sempre meno oggetti e quelli che abbiamo tendono a essere sempre più uniformi in tutto il mondo. Basta aprire Airbnb o osservare le stanze d’albergo: in Australia, a New York o a Milano, gli ambienti si somigliano sempre di più. È fondamentale che gli oggetti abbiano un’identità, che ci leghino a ricordi, emozioni e momenti speciali della nostra vita. Perché, in fondo, non viviamo di oggetti, ma di memoria”.

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Courtesy Matteo Cibic Studio

Sei più da ispirazione improvvisa o da metodo rigoroso?

“Il mio approccio consiste nel raccogliere e rielaborare una serie di informazioni, lasciandole sedimentare nel tempo. Al momento opportuno, queste emergono e prendono forma, dando vita a un oggetto che è il risultato di un processo di elaborazione che può durare giorni, mesi, anni o addirittura decenni”.

Hai mai avuto un momento in cui hai pensato: “Forse ho osato troppo?” E se sì, come è andata a finire?

“No, al contrario. Mi è capitato di pensare di aver osato troppo poco. Anzi a dire il vero lo penso praticamente sempre. Il giorno seguente alla presentazione penso sempre a come avrei potuto farlo meglio. Sono un eterno insoddisfatto”.

Sono state più le volte in cui non sei stato capito o quelle in cui sei stato apprezzato?

“ Se vieni pienamente capito, probabilmente, vuol dire che non dici cose troppo interessanti”. 

Quali sono i tuoi lavori di cui vai più fiero, e perché? 

“È difficile sceglierne una, quasi impossibile. Ogni progetto fa parte di un percorso più ampio, come in una grande famiglia: se dovessi salvarne uno, sarebbe come dover scegliere un solo figlio su una barca. Una domanda complessa, quasi impossibile da rispondere. I lavori di cui vado più fiero non sono solo le opere in sé, ma le collaborazioni e le relazioni che intreccio con le persone con cui lavoro e con cui sviluppo i progetti. Per me, il progetto è uno strumento di connessione, un modo per incontrare persone e conoscerle in profondità. Grazie a questo lavoro, ho avuto l’opportunità di esplorare aree remote, di incontrare persone che altrimenti non avrei mai conosciuto e di comprenderne meglio la realtà”. 

Matteo Cibic Studio
Courtesy Matteo Cibic Studio

E invece quelli altrui che più ti piacciono o ti hanno ispirato?

“Tantissimi. Da Maurizio Cattelan e Jeff Koons, da cui è partita anche l’ispirazione per la collezione Paradiso Grim. Oggi seguo con interesse artisti come Vojtech e Nicolas Party, ma mi appassionano anche molti giovani emergenti. Ultimamente, però, mi sto dedicando maggiormente alla lettura di scrittori e studiosi. Sto leggendo Chandra Bose e Monica Gagliano, una biologa italiana che lavora in Australia, e Stefano Mancuso, che esplora l’intelligenza e la comunicazione delle piante. Mi affascina molto comprendere questi nuovi approcci e visioni”.

Sei ossessionato dalla pareidolia: puoi spiegarci meglio questo concetto?

“La pareidolia è quella tendenza umana a riconoscere figure umane o forme simmetriche in oggetti inanimati: leggiamo facilmente occhi, nasi, bocche o forme zoomorfe e antropomorfe. Io gioco molto su questo “bug” della percezione, perché credo che tutti gli oggetti abbiano un’anima e una loro personalità. È proprio questa caratteristica che, a mio avviso, ci porta ad avere più cura di certi oggetti rispetto ad altri.

Con Vaso Naso, ad esempio, per un anno intero ho realizzato un vaso al giorno aggiungendo un piccolo naso estruso. Osservando le foto di Vaso Naso, si nota come si creino relazioni uniche tra gli oggetti: a volte flirtano tra loro, altre sembrano malinconici o amorevoli. Alla fine del progetto, mi sono reso conto che il mio processo creativo era simile a quello di un regista che costruisce piccoli set teatrali. Gli oggetti diventano attori su un palcoscenico, con le loro relazioni, emozioni e dinamiche”.

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Courtesy Matteo Cibic Studio

Se potessi collaborare con qualsiasi brand o artista, senza limiti di budget o di immaginazione, con chi e per cosa?

“In un senso più ampio rispetto alla collaborazione con un singolo brand o artista, mi piacerebbe lavorare con artisti e registi, un po’ come fece Walt Disney negli anni ’20. Lui riuscì a proiettare un’immagine di un futuro possibile estremamente positivo e ottimista, con l’obiettivo di ispirare imprenditori, politici e studenti a investire tempo ed energie in nuove direzioni. In questo momento, però, non ho un brand o un artista specifico con cui desidero collaborare. Sono più interessato a entrare in contatto con biologi e scrittori, e soprattutto a trovare un regista con cui sviluppare film che raccontino futuri possibili, utopici e ideali”.

Ascolti musica o hai qualche abitudine particolare durante i momenti di creazione?

“Quando creo, cammino molto. Devo cercare di non fare nulla, anche se purtroppo passo troppo tempo al telefono. Mi piace progettare in tandem con altre persone, che non necessariamente devono essere creative. Disegnare e produrre insieme a qualcuno per me è un esercizio, uno strumento per conoscere meglio gli altri. Attraverso l’incontro con nuove persone riesco a generare nuove forme di pensiero. Collaborare diventa un modo per ampliare la mia visione e trasformare il processo creativo in un’esperienza condivisa”.

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Courtesy Matteo Cibic Studio

Pensi ci sia una generale crisi della creatività?

“Oggi, il mondo creativo e intellettuale—poeti, artisti, scrittori—sembra essere al servizio di un’industria priva di sogni. Un’industria che ci chiede di costruire narrazioni finalizzate a vendere oggetti progettati da ingegneri. Ma in passato non era così. Gli intellettuali e la cultura hanno sempre avuto il potere di proiettare sogni. Oggi, sembriamo ancora intrappolati nelle utopie e distopie degli anni ’80. Tuttavia, negli ultimi quarant’anni non siamo riusciti a sviluppare nuove visioni o a immaginare scenari diversi. Sembra che ci siamo persi in una narrazione simile a Black Mirror, intrappolati in un presente eterno privo di prospettive gioiose. Non stiamo creando nuovi sogni da offrire ai giovani, agli imprenditori, ai politici o agli scienziati. Abbiamo smesso di immaginare futuri alternativi e, senza di essi, il progresso rischia di diventare sterile e privo di significato”.

Come vedi il futuro dell’arte e del design, pensi che l’AI cambierà il modo di “fare” e “percepire”?

“Penso che l’intelligenza artificiale non cambierà necessariamente il modo di fare e percepire l’arte, ma ci costringerà a ridefinire dove risiede il valore—non solo nell’arte, ma in ogni ambito creativo, dalla scrittura al design. Nel momento in cui chiunque può utilizzare l’intelligenza artificiale per scrivere un articolo, produrre migliaia di opere d’arte, progettare mille sedie o comporre mille canzoni al giorno, la vera sfida sarà capire cosa conferisce valore autentico a queste creazioni. Sarà fondamentale riscoprire cosa rende un’opera significativa, unica e capace di generare un impatto profondo”.

Matteo Cibic Studio
Courtesy Matteo Cibic Studio

Cosa consiglieresti ai giovani che sognano di intraprendere la tua stessa carriera?

“Sicuramente, il mio consiglio è di studiare molto e coltivare una genuina curiosità. Ciò che rende davvero unici è l’abilità di andare oltre i percorsi già battuti, evitando di rinchiudersi in ciò che è estremamente conosciuto. Non fare ricerca solo su Pinterest o Instagram, perché probabilmente milioni di altri ragazzi stanno esplorando le stesse board o leggendo gli stessi articoli sui forum online. Invece, bisogna andare in biblioteca, sfogliare vecchi libri, visitare musei e mostre poco frequentate, scoprire luoghi e opere che altri ignorano. È importante sviluppare percorsi di ricerca paralleli, contingenti o anche completamente obliqui rispetto a quello che fanno. Solo così si può creare qualcosa di autentico e davvero originale”.

Facciamo un salto temporale da qua a 10 anni, come ti vedi, o meglio, come ti piacerebbe vederti?

“Preferisco pensare al futuro a breve termine, piuttosto che proiettarmi troppo lontano. Per esempio, nei prossimi tre mesi mi piacerebbe realizzare un progetto in un paese africano o sudamericano, lavorando in zone remote con artigiani locali”.