Undici film all’attivo, uno dei volti nuovi del cinema americano, Jeremy Irvine, inglese doc, è l’uomo cover di Icon

FOTO _ DAVID BAILEY    
FASHION EDITOR_  ANDREA TENERANI    
TESTO_  LUKE LEITCH

Quando arrivo allo studio fotografico di Bailey a Londra per intervistare Jeremy Irvine non trovo nessuno: la sessione di posa è andata così bene da indurre tutti a concedersi una pausa pranzo. Li trovo, in- sieme alla squadra di Icon, intenti a mangiare pasta al ristorante italiano preferito da Bailey, proprio dietro l’angolo. Dopo il caffè mi apparto con uno dei più elettrizzanti giovani attori inglesi, e facciamo quel che fanno sempre gli inglesi: andiamo al pub. Bevendo un bicchiere o due, Irvine parla della traiettoria che l’ha portato quasi come una meteora dall’anonimato allo status di attore protagonista di Steven Spielberg in War Horse, e dei suoi progetti per una carriera che è appena agli esordi.
Grazie per il drink! Ma dimmi un po’, Jeremy: si sa tutto della tua parte in War Horse, di come hai suscitato l’interesse di Steven Spielberg che ti ha affidato il ruolo di protagonista in quel film tanto commovente. Prima di allora, però, eri solo uno dei tanti giovani pieni di speranze. Che cosa facevi?
«Be’, per pagare l’affitto lavoravo alla cassa di un supermarket e per un po’ ho anche realizzato siti web per attori che avevano una vera carriera… non come me! Con i computer sono un disastro, ma da autodidatta ho imparato un po’ a usarli al solo scopo di andarmene dal supermercato!».
Dove vivevi?
«Nel Cambridgeshire, in campagna: sono cresciuto lì. Mio padre è ingegnere, mentre mia madre fa politica a livello locale. A un certo punto, vedendo che come attore non trovavo lavoro, cominciarono a dare qualche segno di nervosismo. Dopo un po’ la situazione sembrò farsi disperata, e anche gli scambi con mio padre si fecero più tesi. In quel periodo, però, stavo facendo dei provini per War Horse. Non avevo detto niente a nessuno, perché avevo già fatto altri provini per degli spot pubblicitari e non ero stato preso.

Pensavo: Non c’è una sola cazzo di speranza che mi prendano per questo film”. E invece mi hanno preso! Mi chiesero di non parlarne con nessuno – neanche con i miei genitori – per due settimane. A casa, dunque, i miei erano preoccupati per via della mancanza di lavoro, a parte il supermercato e i siti web, ma io avevo così paura di perdere la parte che non feci loro parola della grande opportunità che mi era capitata

Per due anni, dunque, hai inseguito un ruolo come attore. Quali lavori ti sono sfuggiti?
«Me ne sono sfuggiti di tutti i tipi. Soprattutto nella pubblicità. Ero pronto a tutto. Ricordo un momento di particolare depressione, durante un provino per una pubblicità della maionese, in cui ho pensato: ‘Santo Dio, ho fatto la scuola di arti drammatiche per ritrovarmi qui!’. La maionese mi piace tantissimo, la adoro, ma non mi andava di essere il “suo” volto».
Ora sei nella situazione opposta, richiesto e desiderato da tutti. Con che criterio scegli le parti?
«Ho due agenti, ma in fin dei conti la faccia che va sullo schermo è la mia. Loro possono tentare di convincermi finché vogliono, ma avolte certe cose che mi suggeriscono di fare io preferisco non farle. Altre volte accade il contrario: ci sono parti che io vorrei accettare e su cui loro si mostrano dubbiosi. Per come la vedo io, un film occupa tanto tempo nella vita di un attore, tra riprese e promozione: anche un anno, in certi casi. E se poi ha successo ti accompagna per tutta la vita. Perciò, se mi fanno una proposta che non mi convince, la rifiuto. Ogni volta che ho difficoltà a decidermi mi rivolgo ad attori più esperti per cui nutro ammirazione e rispetto e con cui ho lavorato, per chiedere loro un consiglio».
Ad esempio?
«Ho chiesto spesso consigli a Colin Firth nell’ultimo paio d’anni. In generale, però, dalle persone con cui ho parlato ho ricevuto quasi sempre la stessa risposta: “Nessuno ha rimpianti per ciò che non ha fatto”. Di solito ci si pente di aver fatto qualcosa di cui non si era sicuri, perché può diventare una scelta di cui non si va fieri o fatta per ragioni sbagliate».

Hai un approccio molto serio, ma all’inizio non avevi in mente di diventare un attore. O sbaglio?
«A scuola non ero particolarmente contento. Volevo cimentarmi con qualcosa di più appassionante. Finché un bel giorno un fantastico insegnante di teatro non venne a parlarci dell’accademia di arti drammatiche, di come assomigli a un centro addestramento reclute. Si chiamava Jason Riddington-Smith e oggi fa anche lui l’attore. Aveva frequentato la LAMDA (London Academy of Music and Dramatic Arts) e ci disse quant’era difficile esservi ammessi: dalle 3.000 alle 4.000 persone presentavano domanda ogni anno, ma solo trenta venivano accolti. Mi sembrò una sfida allettante. E poi c’era tanta gente che la giudicava una stupidaggine, il che mi fece venire ancora più voglia di farla. Tra questi non c’erano i miei genitori, che anzi mi hanno sostenuto molto. Devo dire che fino a qualche tempo fa avevo talvolta un atteggiamento piuttosto strafottente. Ora per fortuna sono un po’ cambiato».

Lungo il tragitto per venire qui al pub, mi dicevi che ti fa un bell’effetto tornare a Londra. Da quanto tempo mancavi?
«Da quasi un anno. Non ero mai stato via tanto a lungo. Ho fatto quattro film uno dopo l’altro. Sono stato nel New Mexico per un thriller stranissimo in cui Michael Douglas mi dà la caccia nel deserto. Per questo ci sono voluti due mesi o giù di lì. C’eravamo solo io e lui in mezzo al deserto. Michael è un tipo grandioso; con lui ci si diverte davvero tanto. Dopo di che ho fatto un film sui moti di Stonewall, cioè la rivolta scoppiata nel 1969 al Greenwich Village di New York da cui ha avuto inizio la rivoluzione gay. Quello è un periodo storico affascinante per molte ragioni, ma credo che la rivoluzione gay sia stata un po’ oscurata dal più vasto movimento per i diritti civili che scuoteva allora l’America; però è una storia incredibile che ha avuto inizio allo Stonewall Inn, un bar gestito dalla mafia perché all’epoca servire alcol agli omosessuali era illegale. La mafia approfittò di quell’occasione per far soldi e assunse il controllo dei locali gay. Questi, però, erano spesso bersaglio dei raid della polizia. La mafia allora pagava la polizia per stare alla larga, ma all’ennesimo raid la polizia decise di prendere i nomi degli omosessuali per divulgarli a mezzo stampa. Gli impiegati pubblici rischiavano di perdere immediatamente il lavoro. Una sera, la comunità gay decise di reagire…».

Regnava un maccartismo omofobico, a quei tempi, in America…
«Esatto. Ho già fatto un po’ di promozione per questo film e molta gente si stupisce:

Oh, ma interpreti un gay!. Hai presente? E poi aggiungono: “Una scelta molto coraggiosa!”. Al che sei costretto a precisare che non è affatto coraggiosa: è una scelta. Non capita tanto spesso di leggere sceneggiature così valide, con personaggi così convincenti.

Lo si deve al fatto che il film è finanziato in modo indipendente da Roland Emmerich, un grande regista capace di prendere un film del genere e di farlo letteralmente decollare. Non capitano spesso occasioni come questa. Penso al disappunto dei miei agenti. Io trovo sempre molto allettanti i piccoli film indipendenti e spesso mi faccio coinvolgere, faccio tutto il lavoro, per scoprire a un certo punto che sono venuti meno i finanziamenti e che non se ne fa più niente. Trovare un gran film come quello di Emmerich che conserva però i pregi e l’integrità di un piccolo film è rarissimo. Non ci ho messo tanto a decidere, quando ho ricevuto l’offerta».
Immagino che tu la veda anche come una forma di investimento: la gestione delle tue scelte attuali può tornare utile in futuro.
«Infatti, è proprio così che la vedo! Spero con un po’ di fortuna di fare ancora questo lavoro tra cinque o dieci anni e oltre. Credo che l’industria del cinema sia sempre più rivolta alla scoperta di cose nuove, nuovi attori, nuove mode per quanto effimere. E tutti gli attori più esperti di me, quelli che io più ammiro, hanno lavorato bene e in modo costante fino alla trentina. Dopo di che hanno dovuto prendere qualche rischio».
Mi sembra un ottimo approccio. Anche nel campo della fiction, molti autori restano caratterizzati dalla loro prima opera, se ha successo, poi devono dimostrarsi all’altezza delle aspettative. Come la “sindrome da secondo album” per i musicisti.
«Dici benissimo, e io ne ero consapevole mentre lavoravo al mio primo film, che per giunta era un grande film di Spielberg. Ma c’e anche il risvolto positivo. Mi è capitato, di recente, di fare la prima colazione con uno dei miei attori preferiti: Ryan Gosling. In quel periodo ero indeciso su una proposta di lavoro, perciò gli chiesi un consiglio, e lui: “Oh, cazzo, non ti so dire. Mica l’ho capito, io, come funziona”. Il che la dice lunga. Credevo che almeno lui sapesse bene come funziona, e invece mi sbagliavo. Forse non lo si impara mai».

A parte le foto che ti ha scattato Bailey per Icon, hai lavorato molto per la moda?
«Mi hanno proposto qualche campagna ma finora non ho mai accettato. Mi ero sempre ripromesso di fare almeno dieci film prima di accettare impegni in questo campo. Ora ho appena finito l’undicesimo film, perciò non si può sapere. Se mi proponessero qualcosa ora, forse sarei più disponibile. Sono anche stato a un paio di sfilate di Burberry. Ci si diverte e ci porto sempre anche mia madre. Di solito me ne sto lì un po’ a disagio, completamente fuori posto, a domandarmi come diavolo ci sono finito. Comincio a sudare e faccio la figura di quello stravolto e grondante, in prima fila accanto a qualche persona veramente famosa: in tutte le foto ho quest’aria allucinata. A mia madre però piace tantissimo, perciò la accompagno a questi eventi mondani. Di recente ha conosciuto Dolce e Gabbana ed era tutta entusiasta. Alla sfilata di Burberry, invece, mi fa: “Chi è quel bellissimo ragazzo con i capelli lunghi e scompigliati?”. “Credo sia Harry Styles, mamma.” E lei: “Chiunque sia, è molto carino”».
Insomma, tutta qui, la fama!
«Esatto!».

Traduzione_Gianni Pannofino

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