Di orti e memorie. La cucina di Michelangelo Mammoliti
La Madernassa

Di orti e memorie. La cucina di Michelangelo Mammoliti

di Penelope Vaglini

Lo chef due stelle Michelin de La Madernassa racconta del suo rapporto sentimentale con la terra, custode di ricordi e sapori, che coltiva ogni giorno prendendosi cura di orto e serra.

Tra Langhe e Roero, magnifiche terre piemontesi riconosciute Patrimonio Mondiale dall’Unesco, c’è un confine gastronomico che parla il linguaggio dell’eccellenza. Si chiama La Madernassa ed è il regno di Michelangelo Mammoliti, giovane chef che in soli sei anni ha attirato l’attenzione della Guida Michelin, conquistando due stelle.

La-Madernassa
Ristorante La Madernassa

Un ristorante che vive in rapporto simbiotico con i migliaia di ettari di parco che lo circondano e il cui nome arriva dalle pere tipiche della zona. Tutto, a La Madernassa, inizia dalla terra e il lavoro dello chef è in sincrono con il ritmo delle stagioni. I piatti sono progettati partendo dagli ingredienti autoprodotti nell’orto e nella serra, preziosi scrigni che conservano centinaia di specie vegetali. In arrivo da ogni parte del mondo, Mammoliti ne coltiva i semi dopo i suoi viaggi verso mete lontane e sperimenta con successo colture che con Langhe e Roero non hanno niente a che vedere. Così, camminando nell’orto de La Madernassa, non è così difficile imbattersi in un jackfruit o in un’epazote, per poi notare sette varietà diverse di zucchine, melanzane e numerose altre piante autoctone che completano il portfolio del gusto dello chef.


In questa intervista Michelangelo Mammoliti parla del suo rapporto d’amore con la terra, elemento con cui resta saldamente legato alle sue radici e che gli permette di evolvere ogni anno verso una cucina in equilibrio tra natura, memoria ed emozione. Perché ogni boccone deve trasmettere all’ospite una sensazione ben precisa e stuzzicarne il gusto grazie all’estrema qualità degli ingredienti, coltivati e raccolti dallo chef insieme alla sua brigata.

Tutto parte dall’orto che progetti con cura e dove trascorri parte delle tue giornate. Che cosa rappresenta per te questo luogo?

Credo che l’orto sia l’espressione più democratica del fare umano: a chi è capace di rispettarlo e valorizzarlo, restituirà ingredienti di qualità. E parlo per esperienza personale perché nell’orto ci sono cresciuto. Mio nonno mi portava con sé quando doveva sistemare le piante di pomodoro per farle crescere rigogliose e mi ripeteva sempre che “la terra è bassa e non tutti sono disposti a inginocchiarsi”. Lavorarla è un continuo dare e avere. L’amore e le attenzioni sono quel motore naturale che ti permette di ricevere indietro un ingrediente di qualità. Un po’ come accade in cucina. Si può realizzare una ricetta perfetta a livello tecnico, ma se non si mette passione nel prepararla, chi la degusta non proverà nessuna emozione. Forse chi non è cuoco non può capire fino in fondo, ma quella col cibo è una vera e propria relazione d’amore. 

Nicolò-Brunelli

Come definiresti il tuo rapporto con la terra?

Direi sentimentale. Se sette anni fa mi avessero chiesto come immaginavo il mio futuro, mai avrei creduto di trovarmi a gestire una serra e un orto con quattrocento diverse specie vegetali. Si è trattato di un percorso estremamente naturale, nato dall’esigenza di creare dei prodotti di qualità per il ristorante, ma allo stesso tempo di avere un diversivo che, tenendomi per un po’ lontano dalla cucina, mi permettesse di apprendere qualcosa di nuovo e comprendere i meccanismi della natura. Se non avessi avuto l’orto, probabilmente i miei piatti non avrebbero raggiunto questi risultati, soprattutto a livello di gusto. 

I tuoi menu, quindi, sono frutto dell’orto?

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Nicolò Brunelli

Assolutamente sì, parto sempre dalla terra. La produzione inizia con la semina di febbraio per poi fermarsi con l’inizio di novembre, quando arriva l’inverno. Coltivo 80/90 specie vegetali diverse di cui molte varietà non si reperiscono nei mercati o dai produttori locali. A seconda di ciò che mi restituisce la terra, creo nuovi abbinamenti nel piatto e la cosa più bella è che ogni anno è diverso dall’altro poiché è l’orto che comanda. Nel periodo delle zucchine preparo una ricetta che si chiama “In-fiore”, cuocendole in un’estrazione di verdure grigliate, mentre in quello delle melanzane propongo “Ritorno a casa”, degli spaghetti alla parmigiana con coulis di pomodoro. Certamente ci sono dei piatti che restano in menu, ma in generale amo molto sperimentare ed evolvere le ricette in base ai prodotti che nascono nel Resort La Madernassa. Mi piace avere degli schemi, ma non troppi e coltivare nuovi stimoli che arrivano dalla serra, dai viaggi e dalle persone che incontro. L’anno scorso, per esempio, ho puntato sul peperone di Capriglio, mentre quest’anno cambierò varietà e con il Chocolate svilupperò ricette ancora più intriganti.

Oltre all’orto e alla serra ti dedichi anche alla raccolta di erbe spontanee. Da dove arriva questa buona abitudine?

Mio papà mi portava sempre a cercare funghi, oppure, in primavera, a raccogliere i germogli del tarassaco. Quando tornavamo a casa li mangiavamo crudi in insalata con aceto e uova sode, per apprezzarne dolcezza e tenerezza. Mi dedico da sempre all’arte del foraging, per la quale ci vuole tanta conoscenza del prodotto e dei periodi di raccolta. Il momento in cui si preleva la pianta è ciò che fa la differenza in termini di gusto. Ci vogliono anni di pratica ed esperienza, ma consiglio sempre di partire dallo studio, leggendo i testi di botanici come François Couplan.

Quali sono i prodotti della tua zona che ti danno più soddisfazione e ricerchi nelle tue ‘spedizioni’ dedicate al foraging?

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Nicolò Brunelli

Ogni anno, dopo il disgelo, vado a raccogliere il dente di cane, un’erba che cresce tra i 600 e i 1200 metri di altitudine. Ha un incredibile sapore di noci e nocciole e fa un fiore bellissimo di colore giallo o lilla. In cucina ne utilizzo i bulbi, mettendoli sott’aceto, oppure crudi in un’insalata di erbe amare che accompagna la carne d’agnello. Li ho inseriti anche in un avant dessert con un gelato al latticello e un pralinato alle nocciole, servito con la foglia marmorizzata della pianta che, oltre a essere buona, è bellissima da vedere e diventa un elemento decorativo del piatto.

Esiste un ingrediente a cui sei particolarmente legato?

La terra per me è sinonimo di famiglia e la collego a un ingrediente in particolare. Il pomodoro, di cui ho osservato con interesse tutte le fasi, dalla semina alla crescita in terra piena. Mio papà me lo preparava in insalata, insieme alla cipolla di Tropea e alle olive. Mia mamma, invece, mi faceva le “bistecche”, ovvero delle fette spesse di cuore di bue condite con basilico, aglio e peperoncino. Questi sono i sapori di quando ero piccolo che ancora oggi porto nel mio bagaglio gastronomico, arricchitosi grazie ai viaggi in giro per il mondo, da cui torno sempre con qualche ingrediente. Dalla mia ultima tappa in Messico con la mia compagna Simona, ho portato l’epazote, una pianta che è un mix tra basilico, menta e origano. Da lì è nata Mole, una ricetta ispirata alla tipica salsa messicana che ho realizzato a base di avocado e arricchito con i tomatillo. 

Filo conduttore, in molti dei tuoi piatti, sono le esperienze, le emozioni e la memoria. Parte da qui la tua prossima evoluzione culinaria?

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Nicolò Brunelli

Esattamente e ha anche un nome. Si tratta di neurogastronomia, una scienza che studia come la mente percepisce il gusto, le consistenze, i colori e i profumi di ogni piatto. Le emozioni che evoca una ricetta sono spesso legate alla nostra memoria e a ricordi ben precisi. Ecco perché ho voluto recuperare le ricette della mia famiglia, ricordando i piatti che mangiavo da piccolo e che oggi ho tradotto con il mio stile. Barbecue è uno spaghetto con cui ho ricreato il sapore della braciola di maiale dei pranzi della domenica: un piatto per ritornare a casa anche quando non potevo esserci fisicamente. Ho preso il prosciutto di Cuneo, ne ho fatto un’estrazione con cui ho cotto gli spaghetti, che poi ho mantecato e messo dentro al barbecue. La prima prova me la ricordo ancora adesso, sembrava davvero di mangiare la braciola di mio padre. Col tempo questo piatto si è affinato ed è diventato più equilibrato, ma devo dire che è da lì che la mia cucina è diventata più identitaria. Come per la cura dell’orto e della serra, recuperare le emozioni legate ai piatti che hanno segnato la mia vita è un’esigenza personale, quasi viscerale. Una forza che mi ha permesso di trasformare le mie più grandi passioni in uno stile di vita.