Grandi chef senza frontiere: Lo ius soli in cucina, un viaggio tra tradizione e innovazione

Grandi chef senza frontiere: Lo ius soli in cucina, un viaggio tra tradizione e innovazione

di Luca Iaccarino

In cucina lo ius soli esiste eccome: tanti “grandi cuochi italiani” sono stranieri che hanno trovato fortuna (e stelle) in Italia. E lo stesso vale per gli italiani andati a cucinare all’estero

Ma certo che la cucina non ha confini, non ha dogane, idee e prodotti viaggiano dalla notte dei tempi e grazie al cielo, ché gli italiani non avrebbero la pasta al sugo, i milanesi dovrebbero rinunciare allo zafferano, gli americani non mangerebbero la pizza e i giapponesi non si potrebbero godere la bagna cauda, di cui si sono scoperti appassionati. Chi ha identità forte non ha mai paura del confronto, anzi, va in cerca di nuove idee per miscelarle con le proprie: non c’è grande chef italiano contemporaneo che non abbia tratto ispirazione dall’Oriente, che non pensi che viaggiare sia essenziale per migliorarsi; così come non esiste grande cuoco straniero che non sia stato ispirato dal Buon Paese. Ormai è superato persino il concetto di “chilometro zero” – la sacrosanta reazione alla globalizzazione scriteriata degli anni Novanta – si parla piuttosto di “chilometro vero”, cioè: è giusto che le merci viaggino se ha senso che viaggino. In cucina lo ius soli esiste eccome, e sono a tutti gli effetti “grandi cuochi italiani” gli stranieri che hanno scelto il nostro Paese perché è il più buono del mondo: si può dire dell’uruguagio Matias Perdomo, il cui Constrate è uno dei più divertenti locali milanesi; del colombiano Roy Caceres che ha varato da poco il suo nuovo Orma a Roma, dove sta anche il Maestro Heinz Beck che illumina con le sue tre stelle La Pergola; del brasiliano Mauricio Zillo, che ha riportato una stella a Palermo al Gagini, ma pure dei tantissimi stranieri innominati che spadellano nei locali dello stivale. 


interni del ristorante Orma a Roma

Esattamente come gli italiani danno lustro a quelli in giro per il mondo, basti il nome di Umberto Bombana, che è l’unico tristellato tricolore extra moenia, all’Otto e mezzo di Hong Kong. La cucina “creativa” si chiama così perché guarda il futuro, non il passato: le radici le rispetta, ma intreccia i rami puntandoli verso il cielo. Per capire davvero quanto viaggi, migrazioni e culture si incontrino per diventare cucina bisogna lasciare il fine dining e andare in un luogo popolare, incastrato in una stradina di Ballarò, a Palermo: fuori ci sono tavolini e sedie colorate, dentro uno stanzone pieno di persone d’ogni parte del mondo e grandi pannelli dipinti con onde blu. Si chiama Moltivolti, ed è un ristorante sociale che lavora con i migranti, e in menu può capitare di trovare il mafè senegalese o la doppiaza afghana. I ragazzi che mangiano, studiano, passano i pomeriggi sotto questo tetto magari non se ne rendono conto: ma è anche qui che sta nascendo la cucina del futuro.

In apertura artwork by Andrea Tarella