Eugenio Franceschini
Con scarsissima retorica da attore molto ispirato e grande intelligenza di lettura appartiene alla tipologia che il pubblico riconosce per sottrazione: ha un carisma nuovo di zecca
Eugenio Franceschini è di quella generazione di attori che non vengono esattamente scoperti. Arriva un successo internazionale e sembra che qualcuno voglia ricostruirli. Qui c’è formazione teatrale rigorosa, cinema d’autore, poi, molto alla fine, la serialità.
È uno di quegli attori che non nascono per caso, ma perché la scena è il suo primo ambiente. Suo padre è Gianni Franceschini, attore e fondatore della compagnia Viva Opera Circus, dove Eugenio cresce tra prove collettive, spesso già in ruoli da protagonista. Teatro come mestiere: premessa eccellente. Da Verona, a Roma per studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia, con Giancarlo Giannini: una delle formazioni più rigorose e classiche oggi in Italia.

Il cinema arriva presto: esordio nel 2012 con Bianca come il latte, rossa come il sangue. Poi, commedie come Maldamore e Sapore di te, fino alla prova da protagonista con Fango e gloria (2014), dove interpreta il Milite Ignoto, mettendo per la prima volta in evidenza un registro di peso storico.
La ribalta (la chiamo anche ipervisibilità) internazionale nel 2024, quando entra nel cast della quarta stagione di Emily in Paris (Netflix) nella parte di Marcello (lo rivedremo nella nuova, dal 17/12).
È il primo attore italiano ad avere un ruolo continuativo in una serie pop globale dell’ultimo decennio, e l’effetto è immediato. In un prodotto costruito sull’archetipo, lui gioca volutamente sottotraccia: si inventa per il suo personaggio un profilo elegante, controllato, credibile.

L’italianità (chiamiamola così) ripulita dagli esclamativi è già un ribaltamento notevole. Il peso di una serie così lunga non gli sfugge: «Porta un bagaglio di pubblico e visibilità enorme», dice, anche se il meccanismo della macchina (mentre lavori) sfuma in secondo piano.
Torna evidente fuori scena: quattro stagioni sono una rarità nell’industria culturale pop, e lui entra nell’unica frachise sopravvissuta al ricambio rapido (stritolamento?) delle piattaforme. Lo diverte altro: constatare che gli stereotipi non sono un difetto strutturale delle storie: «Non è necessario che tutto sia neorealista. Se un luogo comune continua a funzionare, vuol dire che risponde a un immaginario riconoscibile».

Ha un rapporto sobrio, al limite del disinteressato, con la popolarità internazionale, e questo spiega perché non sia stato risucchiato dal personaggio: nessuna dipendenza dal riflesso. Il punto, per lui, è altrove: capire quando una parte “accade”. È qualcosa che gli si materializza davanti, dice. Me lo spiega così: «Quando leggo, vedo tutto subito nella testa. Se la scena non si apre dentro di me, allora non è la mia».
Scarsissima retorica dell’attore molto ispirato, molta intelligenza di lettura. Per questo Franceschini risulta abbastanza anomalo, diverso, nel panorama italiano. Lontanissimo dal sopratono digitale cui siamo abituati, appartiene a quella tipologia che il pubblico riconosce per sottrazione: ha un carisma nuovo di zecca.