Robert Pattinson
La scintilla che ha innescato un vero e proprio culto globale per Robert Pattinson è scoccata ormai oltre dieci anni fa. Oggi l’ammirazione nei suoi confronti continua ad ardere più intensa che mai
Immaginatevi Robert Pattinson ai tempi del provino per Twilight (2008), quando dormiva sul divano del suo agente a Los Angeles: un giovane inglese, bello e determinato, con un sogno nel cassetto. Ora Hollywood è in pratica il suo parco giochi: un posto in cui può passare da un film iconico all’altro, un po’ come un bambino alle giostre. Da protagonista in The Batman (2022) al recente Mickey 17, uscito a marzo, che gli è valso alcune delle migliori recensioni della sua carriera.
E negli ultimi dieci anni, Robert Pattinson ha conquistato credibilità sufficiente da permettersi di creare storie anche come produttore. Ha inoltre appena avuto un figlio con la connazionale Suki Waterhouse, ma quando non fa parlare di sé, Pattinson ama prendersi poco sul serio. Lo abbiamo intervistato per parlare del suo prossimo ruolo accanto a Jennifer Lawrence in Die My Love, ma anche della paternità e del rispetto che nutre per gli stilisti.

Robert Pattinson, come è stato lavorare con Lynne Ramsay in Die My Love e come la regista riesce a bilanciare lati dark e umorismo?
Ho conosciuto Lynne nel 2012, e ho sempre desiderato lavorare con lei. È buffo, ogni volta che parlo con Lynne mi racconta sempre tutto ciò che le sta accadendo: aneddoti completamente folli, ma in un modo esilarante. Ascolti e pensi: «Un momento, ma è una cosa drammatica o una storia divertente?». Insomma, è tutto intrecciato. Ecco perché i suoi film hanno quei toni così affascinanti. …E ora parliamo di Kevin, per esempio, non è certo una commedia, ma ci sono scene davvero spassose. A volte c’è qualcosa di divertente, soprattutto a posteriori, quando si ha a che fare con qualcuno che attraversa un periodo psicologicamente complicato, o anche solo un turbamento emotivo. Quando sei in una relazione, capita che tutto diventi surreale; passata la tempesta, capisci quanto fosse completamente ridicolo quello che hai appena vissuto. Nel film c’è molto di tutto questo.
Penso al detto “Tragedia più tempo uguale a commedia”.
È così. Specie se ne sei uscito indenne. O se, in qualche modo, la relazione è ancora in piedi. È per questo che “tragedia più tempo uguale a commedia” è vera. Non ricordo quale comico fosse, ma l’altro giorno ne guardavo uno che diceva: “Fa sempre ridere… finché non succede a te”.

Il film è piuttosto intenso. Qual è stata la parte più difficile da girare?
C’è una scena in cui il personaggio di Jen attraversa uno dei suoi momenti più bui. Adoro interpretare ruoli in cui sono molto reattivo – ma non solo, mi piace anche vestire i panni di uomini assolutamente ordinari. Persone che non hanno né l’atteggiamento né gli strumenti necessari per affrontare gli sconvolgimenti all’interno di una relazione. Credo sia così che si sentono molti quando il partner vive un episodio psicotico. Nessuno sa davvero cosa fare, soprattutto se esplode all’improvviso. Ti aggrappi ancora al ricordo di com’era prima quella persona, cerchi di ritrovarla, di far funzionare la relazione. Ma ormai l’intera dinamica è cambiata. È interessante: di solito sono attratto da personaggi piuttosto bizzarri; invece, a un certo punto ho sentito il bisogno di interpretare qualcuno di normale. E in realtà non è affatto semplice vestire i panni di una persona normale, specialmente se sei abituato a ruoli eccentrici e borderline.
Lei si trovava in un periodo della sua vita simile a quello del suo personaggio: entrambi vi eravate appena costruiti una famiglia. Pensa che questa esperienza personale le abbia permesso di affrontare il ruolo in modo diverso? Sarebbe riuscito a offrire la stessa interpretazione tre anni fa?
No, non credo. È strano, non sono mai stato un grande amante dei bambini (ride). Ma adesso ho molta più pazienza. Anche se in realtà non è nemmeno questione di pazienza: mi piace proprio passare del tempo con i neonati. Ed è qualcosa di cui mi sono sorpreso io stesso. Abbiamo trascorso un sacco di tempo con due gemellini adorabili che nel film interpretavano il bebè. È stato divertente. La cosa buffa è che poi, tutt’a un tratto, inizi a fare conversazioni da genitore medio, tipo su asili o scuole… una cosa stranissima! È come se ci fosse una forza gravitazionale che ti spinge a indossare piumini Patagonia e pantaloncini cargo. È inevitabile.

È solo la fase successiva nell’evoluzione di un papà. Tornando alla recitazione: oggi come sceglie i suoi ruoli?
In genere dipende semplicemente dalla voglia di lavorare con certi attori, oppure dall’interesse verso l’assurdità di una sceneggiatura. Per esempio, in Die My Love c’è una scena in cui il mio personaggio torna a casa con un cane nel peggior momento possibile: già io interpreto un pessimo padre, e mia moglie sta completamente perdendo la testa. E io che faccio? Porto a casa il cane più fastidioso del mondo, uno di quelli che non smettono mai di abbaiare. A un certo punto il cane fa pipì sul pavimento, e io inizio ad accusare Jen di essere stata lei. Questo genere di assurdità mi diverte un sacco: litigare, urlare contro Jennifer Lawrence dicendo: «Sei stata tu a pisciare sul pavimento!».
So che ha iniziato anche a occuparsi di produzione, e immagino che lo farà sempre più spesso. Secondo lei, perché tanti attori finiscono per essere attratti da questo lato della cinematografia?
Credo sia una questione di frustrazione. A un certo punto – magari quando raggiungi i 30 anni – inizi a pensare: «Non posso restarmene con le mani in mano in attesa che il mio agente mi chiami. Così finirò per impazzire». Alcuni preferiscono mantenere una separazione netta, presentandosi solo tra il “ciak” e lo “stop”, senza farsi distrarre da altro. A me, invece, piace avere più cose in ballo. Abbiamo appena finito la nostra prima produzione costruita da zero, ed è stata un’esperienza completamente diversa. Ero a New Orleans e non sono uscito neanche una volta. Non ho nemmeno il ricordo di esserci stato. Ho portato mio figlio al Mardi Gras: è stata l’unica attività alternativa che mi sono concesso. La mia esperienza di New Orleans si riduce a una scorpacciata di bocconcini di albume da Starbucks.

Ultima domanda: com’è stata, nel corso del tempo, la sua esperienza nel mondo della moda?
Immagino che l’idea che la maggior parte delle persone ha del mondo della moda sia tutta legata a sfilate ed eventi mondani… Pur venendo dal mondo del cinema – che ha orari massacranti – non mi aspettavo che esistesse qualcuno che lavorasse tanto quanto gli stilisti. Hanno l’agenda più fitta di impegni che abbia mai visto. Basta guardare il numero di eventi che devono gestire: è pura follia! Ci vuole il fisico di Superman per reggere quei ritmi.