Tommaso Marini
«Sono uno che cade spesso, e ormai non mi fa più paura», confida Tommaso Marini che finalmente ha trovato il modo di passare dentro la fragilità. È una questione di centimetro giusto
Tommaso Marini – 17 aprile dell’anno 2000 – è il nome che ha riportato il fioretto maschile alla misura tecnica e ai risultati. Alto 1,97, crescita rapida nelle giovanili e poi l’esplosione tra 2022 e 2024: Coppa del Mondo, titolo mondiale individuale a Milano, oro europeo a Basilea.
Va osservato in gara, per capire: mentre ammiri la freddezza d’esecuzione, ti chiedi se è il ragazzino prodigio con un talento innato. E sbagli, perché è già l’atleta adulto che si è formato contro la frustrazione.

La pressione – racconta – la gestisce perché l’ha guardata bene in faccia quando ancora non aveva le spalle per sostenerla. Lo dice con la naturalezza di chi ha già passato l’età dello smarrimento (anche se ha poco più di 20 anni): «Sono uno che cade spesso, e ormai non mi fa più paura».
Prima di Parigi, prima delle vittorie consecutive, c’è stata la stagione in cui sarebbe potuto finire tutto. Riserva a Tokyo a 21 anni, convocato ma non protagonista: il punto in cui sentirsi vicino all’élite coincide con l’idea – più che altro la constatazione, a quel punto – di non appartenervi. «Ci rimasi malissimo», ammette.
E la stagione dopo, invece di raddoppiare gli sforzi, naufragò nell’ansia di dimostrare tutto subito. Classico: non funzionò. I risultati non arrivavano. «Mi misi davanti allo specchio e mi dissi: “forse non è questa la tua strada”».

È stata proprio la resa a generare invece la svolta. L’ultima gara prima di mollare, Coppa del Mondo, fu la prima volta senza aspettative. Altro classico: arriva la vittoria. Da lì il cambio di paradigma: non si doveva alleggerire l’obiettivo, ma alleggerire la presa su di sé. «Capisci che è un lavoro, va bene, ma deve restare anche un gioco. Quando togli l’ansia di riuscire, le cose si muovono».
Non è una formula motivazionale di quelle che trovi su Instagram, è un metodo agonistico. «Le stoccate», dice, «parlano nei primi secondi più di qualunque analisi: capisci subito se sei presente, e cosa puoi aspettarti». In questo sta il suo profilo migliore, mi sembra: nessuna retorica melensa da campione, solo consapevolezza che il margine tra dominio e scivolata è sottile.

Marini appartiene a una generazione di atleti che sa che i numeri non mantengono (sarebbe bello) un’evoluzione lineare. Per questo la domanda che detesta è “quante volte ti alleni?”. Perché restituisce l’idea sbagliata che il n. 1 si sia costruito altrove rispetto al n. 40. «Mi alleno quanto loro. Non è il volume che cambia il risultato».
Tommaso Marini ha trovato il modo di passare dentro la fragilità. Molta più esecuzione che spettacolo. È una questione di centimetro giusto, quindi vince chi sa controllare lo spazio, chi fa una buona gerarchia del movimento, chi sa restare attento. Divertendosi, magari.