Giacomo Ferrara

Giacomo Ferrara

È l’unico della famiglia a essere emigrato e sogna di tornare, portando il cinema in Abruzzo con sé. Giacomo Ferrara si diverte soprattutto a interpretare i cattivi anche se sua madre non la prende benissimo perché non gli assomigliano affatto

di Natascha Lusenti

Un amico che lavora in produzione per il cinema e la tv mi ha detto di lui che sul set, qualche anno fa, l’aveva trovato molto carismatico e molto educato. Riferisco e il diretto interessato si mette a ridere: «Adesso avrai delle aspettative» – vero – «e non le devo deludere». È in collegamento via Zoom da Roma, città dove è arrivato 14 anni fa con un diploma in tasca, proprio come aveva programmato a 8 anni dopo aver deciso che sarebbe diventato un attore: recitava «in uno spettacolo per i clienti dell’albergo» dei genitori e si sentì «nel momento giusto, nel posto giusto». 


Abito Baracuta, camicia Dior, cintura Gavazzeni.

Cosa rara per «gli attori, dei disadattati», e così si disse «prendo il diploma, a 18 anni vado a Roma, mi metto a studiare recitazione e faccio l’attore». Detto, fatto, «da buon abruzzese». Sapendo che, se fosse andata male, sarebbe confluito nell’impresa familiare, un albergo sulla Maiella, nel Parco Nazionale, costruito dal nonno «in mezzo al nulla» («è l’unica vetta dove si scia vedendo il mare»), gestito dai genitori e che impiega zii, cugini e il fratello («ma quando c’è tanto lavoro vengono gli altri familiari ad aiutare»). È il luogo in cui è cresciuto («ci sono tutti i ricordi della mia infanzia»), dove ha imparato il sacrificio («l’ho visto nei miei genitori che poi me l’hanno insegnato, l’estate lavoravo lì per risparmiare i soldi per comprarmi qualcosa»), su cui ha dei progetti e che ama «da morire: ogni volta che posso torno e do una mano».


Maglia e jeans Gucci, stivali Dior.

Giacomo Ferrara, 32 anni, conosciuto soprattutto per aver recitato in Suburra (già annunciato da Netflix lo spin-off, SuburrÆterna) nel ruolo di Spadino – «un personaggio a cui sono attaccato perché mi ha portato al grande pubblico, che a un attore fa piacere non per la fama, che è una brutta parola, ma perché ti accorgi di aver lasciato qualcosa di te» – ha espresso il desiderio di tornare a casa quella mattina stessa – «ho avuto la sveglia presto» – a una conferenza all’Aquila per la Film Commission Abruzzo, che «finalmente si sta avviando». È stata l’occasione per raccontare della sua esperienza con le Film Commission di altre regioni da dove le persone non devono andare via per vivere di cinema.


Maglia e jeans Gucci.

Un sogno, ancora, per un abruzzese come lui – «se riuscissi ad arrivare al momento in cui vivo lì e mi sposto solo per lavoro sarebbe bello» – che, nel frattempo, ha partecipato all’opera prima di Maria Tilli, anche lei della provincia di Chieti, «classe ’87», che ha all’attivo più di un documentario, tra cui Gli 80 anni del Centro Sperimentale di Cinematografia, sotto la supervisione di Gianni Amelio. «Siamo stati a girare una settimana in Abruzzo ed è stata una prima volta ed è stato bello, poi però la storia si svolge altrove», ma «non posso dirti niente». Posso, però, immaginare che delle esperienze professionali di Tilli lo abbia attratto anche la regia del backstage di Dogman, film di Matteo Garrone, tra i registi importanti il suo «preferito» (mi confesserà poi che, tra i grandi che non ci sono più, Bernardo Bertolucci è quello da cui gli sarebbe piaciuto essere diretto). 


Tra i colleghi lo ispira Daniel Day-Lewis, «in scena è famelico, ogni volta cambia, gli cambiano persino gli occhi», sebbene non ne condivida il metodo, «è estremo, rimane nel personaggio h24 per mesi, io invece ho l’idea di un lavoro sano: essere preparati, sì, sapere come progettare un ruolo, come usare alcune cose senza doversele strappare per forza, divertirsi anche, perché è un lavoro creativo, poi però chiudere, dire ok sono Giacomo, questa è la mia vita, torno a casa, fidanzata, cane» – una bassotta, presa a Roma, lui che da bambino non ha potuto avere un cane («c’era già troppo da fare in albergo»). Insomma, non il tipo che rischia di montarsi la testa – «mio padre mi tirerebbe troppe sberle» dice ridendo. E, del resto, come potrebbe perdere il contatto con la realtà considerato che i ruoli che lo divertono di più («mi piace moltissimo fare i cattivi») non hanno l’approvazione della madre che «non la vive benissimo perché dice che, non essendo io così, vorrebbe che la gente mi vedesse per quello che sono».


Camicia e pantaloni Bottega Veneta.

Quando non lavora studia recitazione con il suo acting coach, Alessandro Prete, legge – «non sempre, perché leggo talmente tanto per lavoro che poi mi va di “stare senza pensieri”, detta alla Gomorra», e mostra controvoglia la copertina del libro che sta leggendo, «ormai lo leggono tutti» (è La bella confusione di Francesco Piccolo) – se ne va a camminare in montagna, «faccio 26-27 chilometri al giorno, raggiungo le cime» o viaggia. Ad aprile è stato in Giappone. Da «fan di Hayao Miyazaki, dei manga e dei film di animazione» si aspettava fosse bello «ma non così tanto». I giapponesi gli sono sembrati «alieni», lo hanno «imbarazzato per la loro educazione». Soprattutto ripensandoci: «Quando sono tornato a Roma, sono andato a fare la spesa, la cassiera nemmeno m’ha guardato, ha detto “è chiuso”». Vuoi mettere i giapponesi, ma anche gli abruzzesi che gestiscono alberghi familiari sulla Maiella.

Photos by Guy Aroch, styling by Edoardo Caniglia; Grooming: Franco Chessa @ProductionLink. Styling assistants: Elena Pacino, Giada Cubeddu.