Marcell Jacobs

Marcell Jacobs

Il primo italiano a vincere la finale dei 100 metri alle Olimpiadi ci racconta come è cambiata la sua vita dopo che, in 9 secondi e 80 centesimi, da essere un atleta quasi sconosciuto è diventato uno degli uomini più famosi al mondo

di Angelo Pannofino

Roma se ne sbatte: puoi anche aver vinto i 100 metri alle Olimpiadi ma se all’Olimpico si gioca la semifinale di Europa League, un taxi non lo trovi. Marcell Jacobs resta quindi appiedato davanti all’altro stadio, il Paolo Rosi, dove si allena in vista dei mondiali di Budapest ad agosto. «È dalle sei che aspetto», mi dice con voce inspiegabilmente calma se si considera che ora sono le sette. L’intervista tocca quindi farla al telefono e con un essere umano che da un’ora cerca un taxi. A Roma. Per fortuna, oltre l’oro (anzi due), di olimpico Jacobs sembra possedere anche la calma.


Aspettando il tassista Godot, facciamo quindi due chiacchiere su quello che accade quando, nel giro di 9 secondi e 79 centesimi, poi corretti a 80, si passa dallo status di atleta quasi sconosciuto a quello di uomo tra i più famosi al mondo: «Ci ho messo dei giorni per rendermene conto: a Tokyo, per via del covid, non potevamo vedere nessuno e io ero concentrato sulla finale della staffetta che avremmo corso (e vinto, ndr) pochi giorni dopo. Solo quando sono tornato in Italia ho realizzato: ho passato dei momenti in cui mi sentivo quasi a disagio. I paparazzi sotto casa, al supermercato… Abituarsi non è stato facile né immediato».


Per sua fortuna Jacobs ha sempre sognato la notorietà e ora non se ne pente: «Va benissimo così! Mi fa molto piacere, soprattutto perché le persone non mi fermano solo per farsi la fotografia ma per dirmi “grazie”. Ora corro sapendo di avere una nazione dietro di me». Una certa responsabilità… «In realtà non mi pesa: nonostante infortuni, sconfitte e delusioni ho realizzato il mio sogno di bambino. Volevo essere d’esempio, far capire che, se ci tieni, con impegno, dedizione, fatica e sudore, alle cose ci si arriva». Quattro sostantivi non molto popolari di questi tempi, in cui sembra che per molti “il successo” sia dovuto: «È vero, oggi tutti si accontentano o vivono in questo mondo finto dei social, in cui a uno piace più vedere quello che fa un altro invece di provare a farlo. Mi dispiace, perché non c’è quella fame che avevo io: quando guardavo qualcuno e mi dicevo “cavolo, anch’io voglio diventare come lui, avere quello che ha lui”, poi faticavo ogni giorno di più per farcela. Adesso invece sembra che apparire sia tutto, o che basti fare mezza cosa per sentirsi bene, e mi dispiace, perché ognuno ha un talento e dovrebbe guardarsi dentro e cercare di tirarlo fuori».


Total look Emporio Armani

Gli sportivi forse eccedono in senso opposto e la loro gioia è spesso effimera persino dopo una vittoria: «A Tokyo è stata l’unica volta in cui ho quasi festeggiato dopo il traguardo: di solito aspetto che sullo schermo compaiano i tempi, perché in gara guardo solo la mia corsia, ma lì mi ero reso conto di essere davanti e quindi ho esultato. Eppure, quando il tempo iniziale di 9”79 è stato arrotondato a 9”80 ho rosicato e la prima cosa che ho detto al mio allenatore non è stata “Wow! Abbiamo vinto le Olimpiadi!” ma “Era meglio quel 9”79, dobbiamo rifarci”. Noi sportivi siamo un po’ dei disadattati, perché lavoriamo tutti i giorni per un obiettivo e quando infine lo raggiungiamo non ce lo godiamo». Per non dire dell’horror vacui: l’ex pilota di Formula1 Jenson Button mi ha raccontato che subito dopo aver vinto il Mondiale ha avuto paura, schiacciato da una domanda: “E ora?”. «È verissimo, è successo anche a me. Nel mio caso è ancora più complicato, perché hai una sola possibilità, che si spera duri meno di dieci secondi, per vincere la medaglia più importante che c’è, e quando poi succede ti domandi “E adesso cosa faccio?”. In un paio di giorni torni lucido e ti ricordi che dopo quattro anni c’è un’altra Olimpiade, che ci sono i Mondiali… Ma non è facile ritrovare la stessa energia».


Giacca e pantaloni Giorgio Armani, tank top Emporio Armani

Nel suo caso ci è voluto tempo: «Dopo Tokyo avrei voluto continuare a gareggiare ma, a livello mentale e nervoso, avevo perso le forze». Quelle residue le ha impiegate per cercare di «rimanere con i piedi per terra» e togliersi «qualche sfizio». Tipo? «Cose che prima non potevo fare: una vacanza, shopping, mi piace vestirmi bene. Poi hanno iniziato a invitarmi a vari eventi sportivi e mi sono goduto queste opportunità». Quando è arrivato il momento di ritrovare le motivazioni ha dovuto cambiare approccio mentale perché da “underdog” ora era diventato «quello che va in giro con un bersaglio sulla schiena e tutti vogliono battere», come gli ha detto il suo idolo Usain Bolt per metterlo in guardia. Jacobs si è dato nuovi obiettivi, sportivi, come i Mondiali indoor di Belgrado ’22 (vinti), e non: «Spesso mi hanno detto che avevo solo avuto fortuna. Vincere una finale olimpica facendo il record europeo non è fortuna, ma volevo dimostrare a chi lo pensava che si sbagliava».


Total look Emporio Armani

Jacobs ama ciò che luccica, comprese le auto sportive, ma l’oro a Tokyo lo ha costretto a spostarsi a bordo del noto “carro del vincitore”, quello su cui c’è sempre chi prova a salire: «Uhhh! A gogo! Sono state tantissime le persone che volevano salire sul mio carro e prendersi meriti che non avevano. Mi avvicinavano solo per approfittarsene, perché in quel momento ero quello che ero». Li ha gestiti, dice, «mantenendo la mente lucida e facendo capire che non è grazie a loro che sono lì. Che non ho bisogno di loro». La mente lucida, l’aspetto psicologico, per Jacobs sono stati determinanti: come racconta nella sua autobiografia (Flash, Piemme), la vittoria è arrivata anche perché prima è riuscito a scalare due montagne interiori che non sfigurerebbero tra quelle himalayane. Una si chiama Lamont Jacobs, il padre che lo ha abbandonato dopo la nascita, un vuoto che Marcell negli anni ha riempito con paure, rabbia, insicurezze varie, muri, finché non ha capito che il percorso per arrivare in vetta era un altro: «L’avvicinamento a mio padre è stato fondamentale. Non era tanto una questione per cui dovevamo diventare veramente “padre e figlio” o sentirci tutti i giorni: era più una questione per cui io, dentro di me, dovevo accettare il fatto che lui era mio padre. Anche se non c’era mai stato. È stato un percorso che mi ha fatto maturare e mi ha liberato da pesi che mi portavo dietro da una vita». 


Total look Emporio Armani

La seconda montagna si chiama Filppo Tortu, il rivale di sempre, diventato un’ossessione via via più ingombrante che lo ha obbligato a un’altra bella impresa di alpinismo interiore: «Mi è piaciuto raccontarla con sincerità e onestà, perché ognuno di noi vive situazioni simili, che siano nello sport o meno: volevo far capire come, lavorando su noi stessi, ci si possa liberare dai pensieri che ci bloccano. Ci facciamo tante pippe mentali». Oggi il rapporto con Tortu «è buono!», risponde convinto: «Non è che usciamo insieme, ma quando ci vediamo ai raduni il rapporto è molto buono. Una volta non era così, adesso sì». Intanto è riuscito a salire su un taxi «ma è da mezz’ora che siamo fermi al Flaminio». In bocca al lupo, dico, pensando sia ai Mondiali che al traffico pre partita: «Viva il lupo», risponde. «Mi spiace aver fatto l’intervista al telefono, ma questa è Roma». E nella voce, ancora, quella calma olimpica.

Nella foto di apertura look Emporio Armani

Photos by Giampaolo Sgura, styling by Edoardo Caniglia, Hair: Flavio Santillo @Studio Repossi. Make up: Samia Mohsein @Studio Repossi. Styling assistant: Valentina Volpe.