Profitto e rispetto, lusso e umanità. I cugini Dumas
 sono convinti che non conta come le cose sono fatte, 
ma come vengono usate. E che la dinastia imponga
 regole precise. A partire da un vecchio disegno.

Appena metto piede al numero 24 di Rue du Faubourg Saint-Honoré vengo circondato da un brusio signorile e discreto. La boutique al piano terra di questo palazzo, sede di Hermès da centotrentadue anni, pullula di attività. Clienti dalla Cina, dalla Russia, dal Medio Oriente, dal Giappone, dall’America – e persino qualche rappresentante della nostra Europa impoverita – gironzolano per i locali; le donne a caccia di foulard di seta o delle celebri borse Hermès: la Birkin, la Kelly, la Constance, forse la Jypsière; gli uomini occhieggiando le raffinate cravatte, gli articoli in pelle e gli orologi (il mio preferito, Temps suspendu, ha un pulsante per spegnerlo quando vuoi trascorrere il tempo che ti va senza preoccuparti di che ore sono). In vetrina ci sono capi da uomo – camicie fruscianti come banconote nuove, giacche di coccodrillo leggere come cotone e il cashmere più morbido e lucente che si possa immaginare. Mentre mi faccio strada nella ressa, diretto all’ascensore per lo staff sul retro, dalle porte d’ingresso entrano nuovi clienti affamati di un po’ di stile Hermès. L’atteggiamento generale è di estremo decoro – dopotutto siamo nel più grande tempio del lusso francese – ma a eccezione dello store di Chanel in Rue Cambon (costantemente cinto d’assedio quasi quanto questo) non ho mai visto una boutique parigina d’alta moda così affollata. Crisi? Quale crisi?

L’ascensore è come quello di Willy Wonka: le porte si chiudono, e ti trasporta in un altro mondo. L’ultimo piano del quartier generale Hermès ospita un piccolo giardino all’ombra di un melo, un luogo così silenzioso che riesci a sentire il fruscio delle foglie. In una sobria stanzetta lì accanto, viene servito il tè su un tavolo di latta verde. Pierre-Alexis e Axel Dumas si accomodano e sorseggiano la bevanda. Questi due cugini, rispettivamente di quarantacinque e quarantadue anni, sono i discendenti di sesta generazione di Thierry Hermès, il sellaio che fondò l’azienda centosettantacinque anni fa. Sono cresciuti in Francia e hanno persino abitato insieme quand’erano dirigenti poco più che ventenni a Hong Kong. A dispetto dei miei tentativi, si rifiutano di svelarmi qualche storiella compromettente sulla loro gioventù. Tutto ciò che riesco a ottenere è una fugace ammissione da parte di Pierre-Alexis, la cui prima valigia di pelle Hermès – ci infilava la testa per annusarne l’odore quando frequentava il college negli Stati Uniti e aveva nostalgia di casa – ha ancora una macchia di Curaçao, “ricordo” di una disavventura in compagnia di Axel.

Sessanta eredi — Questi signori, tuttavia, sono gentleman di tutto rispetto, seri e affidabili, che portano sulle spalle un pesante fardello. In quanto direttore artistico (Pierre-Alexis) e co-amministratore delegato fresco di nomina (Axel), sono stati incaricati dai sessanta o giù di lì co-eredi di Hermès di garantire la buona salute dell’azienda, passata nelle mani della generazione più giovane della famiglia. Di primo acchito si potrebbe pensare che non sia un compito arduo – dopotutto, si prevede che le vendite di Hermès avranno un incremento del 12% nel solo 2012. L’anno scorso le entrate hanno superato i 600 milioni di euro e l’azienda ha al suo attivo 35 fabbriche e 9.526 dipendenti. Ma i due signori in questione non danno nulla per scontato. «Sai», mi dice Pierre-Alexis, «se ho due minuti liberi vado in negozio e osservo tutti i clienti. E mi ritrovo a desiderare di andare da ciascuno di loro e ringraziarlo per essere venuto».

Pierre-Alexis è senza dubbio il rappresentante più genuinamente serio e implacabilmente idealista dell’élite della moda che abbia mai conosciuto. Ha anche una spiccata tendenza a dominare la conversazione. Quando descrive il progetto “Men’s Universe”, che racchiude la filosofia di Hermès per tutti i capi e gli accessori maschili, me lo riassume così: «Diversità, abbondanza e spessore nei contenuti. Le collezioni che abbiamo realizzato sono molto più ricche rispetto a ciò che possono ospitare le nostre boutique. Abbiamo molti più capi e accessori di quanti ne vengano esposti. Così, ogni volta che si osserva da vicino l’universo Hermès si scopre qualcosa di diverso. Si vedono nuove forme, nuovi oggetti, nuovi motivi – un dinamismo costante, una costante diversità».

Questa caleidoscopica profusione ha preso forma in una sfilata evento allestita a ottobre presso il Palais Brongniart e intitolata A Man for All Seasons. Sulla passerella ai modelli si sono unite delle “persone reali” – un giocatore di tennis, un architetto, un gallerista e persino un giornalista (francese e di bell’aspetto) – per presentare la sfavillante collezione autunno/inverno 2012/13.

Il progetto, mi spiega Axel, è partito circa sette anni fa, quando i dirigenti di Hermès hanno deciso di dare particolare risalto alla linea maschile della maison. «In un certo senso Hermès è sempre stato sia maschile sia femminile. Intendo dire che si può intravedere una forte mascolinità nelle nostre borse da donna, così come una certa femminilità nei nostri completi da uomo o nelle nostre cravatte». E Hermès ha messo gli uomini disposti a indossare le sue collezioni – disegnate negli ultimi ventiquattro anni da Véronique Nichanian – al centro di questo nuovo sistema solare, per poi farvi orbitare intorno un assortimento articolato di accessori, profumi e oggettistica per la casa. Una strategia che si è accompagnata alla perfezione alla crescita del mercato del lusso in Cina.

Purché si faccia con garbo — Ma ciò che distingue Hermès dagli altri brand del lusso è che le sue linee guida si basano su una precisa filosofia, non meno che sulla volontà di esprimere uno status – o amore per le cose belle. E si tratta di un credo seguito con fede sincera, come riassume Pierre-Alexis quando dice: «Vogliamo creare un ambiente in cui il cliente possa sviluppare la sua sensibilità e la sua sensualità, e dar loro voce. Un luogo in cui possa essere fine, elegante, pieno di garbo sia con se stesso che con gli altri. Stiamo parlando di valori umani. E credo che questo sia un atto di civilizzazione». A questo punto devo confessare che sono piuttosto cauto nel contraddire Pierre-Alexis. La prima volta che incontrai i cugini Dumas, infatti, qualche mese fa, mi permisi di suggerire che la sincerità di Pierre-Alexis fosse una caratteristica piuttosto inusuale in un business dominato spesso dalla sola logica del marketing – e lui mi accusò di essere cinico e andò su tutte le furie.

Ma non posso esimermi dall’inarcare con audacia un sopracciglio di fronte al suo commento sulla “civilizzazione”. Allora Pierre-Alexis giustifica l’uscita con un certo brio: «Riflettici un istante: sappiamo tutti che gli oggetti che possediamo determinano in qualche modo il nostro modo di essere. Cosa mi dici di un abito, di un orologio, di un paio di scarpe? Ti senti a tuo agio quando li indossi? Chi sei? Sei indipendente dal mondo in cui vivi o ti lasci plasmare da esso? Gli accessori di Hermès sono degli strumenti, e ti invitano ad avere un rapporto col mondo che speriamo sia raffinato e pieno di garbo».

Il garbo, tuttavia, è un lusso su cui Hermès non può fare sempre affidamento. Al contrario, ha dovuto reagire con grande energia dopo che il suo più grande rivale, il colosso della moda Louis Vuitton Moët Hennessy, ha acquistato con discrezione il 23% delle quote della compagnia. Per tutelare il patrimonio familiare, i membri della dinastia Dumas si sono incontrati in segreto per fondare una holding di cui detengono la maggioranza delle quote, che, da contratto, non può essere smantellata per almeno i prossimi vent’anni. Così, per ora Hermès è al sicuro, sono convinti i cugini Dumas. Tuttavia, come mi dice Axel: «Sì, adesso siamo in una posizione di forza – ma l’altra faccia della medaglia è che non puoi fare a meno di essere paranoico. E benché siamo molto fiduciosi, restiamo paranoici fino all’ultimo». E aggiunge: «Nessuno è il proprietario di Hermès. Noi siamo solo degli affidatari e abbiamo intenzione di tramandare questo patrimonio».

Più o meno oro? — È stato il padre di Pierre-Alexis, Jean-Louis Dumas, a guidare Hermès nella straordinaria ascesa che l’ha vista diventare una grandissima azienda del lusso. Tra il 1978 e il 2006, anno in cui è andato in pensione, Dumas senior ha preso quella che era una vera istituzione della moda francese, di successo ma ormai moribonda, ne ha ampliato la produzione e l’ha fatta crescere sino a trasformarla in un sinonimo mondiale di gusto e raffinatezza. «Quand’ero piccolo mio padre mi fece un disegno con due barche», ricorda Pierre-Alexis. «Mi disse: “Su questa barca usi le persone per ottenere il massimo del profitto. L’altra barca, invece, ti serve per sostenere le persone che lavorano per te, che realizzano dei guadagni per te. Devi decidere su quale salire”». Ed è evidente che i Dumas abbiano scelto di dare priorità alle persone anziché ai profitti quando li senti parlare degli artigiani che creano le celebri borse Hermès (un’azienda in cui non esiste una catena di montaggio e c’è sempre una persona che si dedica alla realizzazione di un’intera borsa). Conoscono diversi dipendenti i cui genitori, nonni e bisnonni hanno lavorato a loro volta in azienda. Axel si è persino consultato con gli artigiani quando ha preso in considerazione l’idea di ridurre la quantità di oro utilizzata per gli accessori in metallo delle borse. E quando i dipendenti hanno dichiarato all’unanimità che questo avrebbe compromesso la bellezza delle loro creazioni, Axel ha accantonato l’idea. «Fine della discussione», conclude. «Sai, i nostri prodotti sono difficili da realizzare. Ogni borsa richiede sedici ore di duro lavoro. I nostri artigiani soffrono un po’ per ogni borsa. Ma questa è l’anima dei prodotti Hermès. Poi li diamo al cliente e sappiamo che avranno una seconda vita».

Quel che accade dopo — Ma, solo per un minuto, ritornando al commento di Pierre-Alexis sugli accessori Hermès come “atto di civilizzazione” – come fa a essere sicuro che le sue borse verranno acquistate da persone “civilizzate”? gli domando. Dopotutto, il mondo è pieno di uomini arroganti e spocchiosi che hanno un certo occhio per  la raffinatezza. Pierre-Alexis è pronto a ribattere: «Non giudico nessuno dei nostri clienti. L’essenziale è riconoscere il rapporto che intercorre tra un oggetto e la persona che lo usa. Quello che conta davvero non è il modo in cui vengono realizzate le nostre borse: la parte davvero interessante inizia quando quell’oggetto esce dal negozio. Non si tratta solamente di possesso materiale: c’è qualcosa di più profondo che si innesca tra un accessorio Hermès e chi ne fruisce. Ne sono convinto».
Profondi princìpi morali anziché priorità ai guadagni. Valori a favore di un vero ideale. Persone che vengono prima dei profitti. Tra i grandi, navigati scommettitori nel business della moda non sono in tanti – se pure ne ce sono – a parlare come i cugini Dumas. E il bello è che dicono sul serio.

Testo: Luke Leitch