30 anni di Supreme: una storia di successo costellata di collaborazioni clamorose
Supreme, uno dei più famosi marchi di streetwear esistenti, spegne 30 candeline. Dallo store di New York alla conquista del mondo: la storia dell’ascesa fulminea di un brand che ha unito lusso e street
Fondato nel 1994 da James Jebbia, il Supreme nasce come un negozio in Lafayette Street, a New York, principalmente al servizio della comunità di skater locale. Ma l’ascesa è stata fulminea ed è diventato rapidamente un cult della moda globale, guadagnandosi l’etichetta di “Chanel dello streetwear“. Il merito? Dei suoi prodotti, della lungimiranza del suo fondatore e della formidabile strategia delle collaborazioni.
Andiamo per gradi, partendo proprio dal principio. Torniamo all’aprile del 1994, quando un giovane James Jebbia (all’epoca 30enne) aprì le porte del suo negozio in Lafayette Street, a New York nei dintorni di Soho. Per dirla in parole povere, in quegli anni Jebbia non aveva niente di nuovo da offrire, se non delle magliette e delle t-shirt box logo Supreme e qualche grafica accattivante (come quella raffigurante il volto di Robert De Niro nei panni di Travis Pickle in Taxi Driver). Quello che aveva però, e che poi si dimostrò la sua vera forza, era una fedele community. Lo store divenne un punto di ritrovo per i giovani skater, ma anche per i ragazzi del quartiere e artisti locali.

Supreme stava diventando un involucro creativo che racchiudeva la controcultura newyorkese di quegli anni. E non ci volle molto prima diventasse un’istituzione per la skate culture, per poi affermarsi come punto nevralgico dello streetwear nella Grande Mela. Le parole d’ordine erano (e sono tutt’ora): qualità, stile, autenticità e, soprattutto, esclusività. Ma attenzione non esclusività con un’accezione elitaria. Possiamo anzi affermare con abbastanza sicurezza che James Jebbia con Supreme sia stato il pioniere di quella che oggi chiamiamo Hype Culture. Creando quel gap tra domanda e offerta, oggi emulato da moltissimi player del settore, Supreme rimase un brand client-oriented senza perdere mai autenticità e credibilità. Allo stesso tempo questa politica di scarsità ne aumentava esponenzialmente la desiderabilità da parte di un pubblico sempre più ampio.
Ma soprattutto all’inizio, vendere capi limitati a poche copie non era una strategia pensata per una crescita economica; bensì era l’unica strategia possibile a causa delle poche risorse iniziali. Era l’unica soluzione possibile per sopravvivere in quella giungla urbana di New York. Ma ironia del destino, fu un fattore che ne sancì il successo. James Jebbia riforniva il negozio settimanalmente con i nuovi drop, e così iniziò a creare le file fuori dal negozio con i clienti che cercavano di accaparrarsi uno dei suoi pezzi unici e da lì a poco quasi introvabili.

Jebbia è sempre stato attento ai suoi clienti, ed è sempre stato convinto che la sua nicchia sarebbe stata ben disposta a pagare per comprare capi unici e interessanti; insomma se avesse pensato ne valesse la pena. E non si sbagliava. Da allora di strada ne è stata fatta e Supreme ha aperto i suoi primi negozi oltreoceano, arrivando fino a 17 punti vendita in città strategiche come Milano, Berlino, Chicago, Shanghai e Seoul. In 30 anni, Supreme si è espansa fino a diventare una comunità globale; lavorando con generazioni di artisti, fotografi, registi, designer, musicisti e scrittori che hanno sfidato le convenzioni e hanno contribuito alla definirne un’identità e un’attitudine uniche.
Supreme, un successo merito anche di collaborazioni mirate
Nike, The North Face, Stone Island… no, non stiamo elencando nomi a caso di alcuni dei top player dei rispettivi settori. Sono solo alcuni degli ultimi brand con cui Supreme ha collaborato! E se vi sembra impressionante, aspettate di sentire gli altri. Anche se a dire il vero sarà impossibile citarli tutti. Prima però, è giusto dire che parte del grande successo mondiale del brand è merito anche della strategia – oggi comune – delle collaborazioni.
Anche in questo caso, il marchio newyorkese fu un pioniere, soprattutto per quanto riguarda la liason con il lusso. Grazie alle innumerevoli partnership con maison di un certo rilievo, fu uno tra i primi (insieme a Virgil Abloh con Off-White) a far entrare a gamba tesa lo streetwear nel segmento luxury. Quasi una contraddizione lessicale poi diventata all’ordine del giorno: a una certa, non c’era persona amante della moda che non desiderasse un qualsiasi oggetto brandizzato con il semplice logo rosso e bianco.

Una delle co-lab più famose che lo portò agli apici della fashion industry fu la viralissima collaborazione con Louis Vuitton nel 2017. L’apoteosi dell’inedito ma funzionale sodalizio tra street e lusso. La collaborazione che sancì a tutti gli effetti la top reputation di Supreme per come lo conosciamo oggi. Ma i nomi dell’alta moda non si contano nel passato di del brand: Burberry, Comme des Garçons, Jean Paul Gaultier, Tiffany, MM6 Maison Margiela, Thom Browne ed Emilio Pucci, giusto per citarne qualcuno. Il tutto senza mai perdere credibilità, o sacrificarla in nome del successo aziendale. Ed è una cosa che tutt’oggi ci lascia sbalorditi (nonostante sia anche stato venduto a un colosso come VF Corp.).