Intervista a Carlo Rivetti, presidente di Stone Island

Intervista a Carlo Rivetti, presidente di Stone Island

di Angelo Pannofino

Da più di 40 anni Stone Island si muove seguendo una rotta tutta sua che ne ha fatto un brand di culto in epoche, Paesi e contesti culturali distantissimi tra loro. Come ci riesce? Lo abbiamo chiesto al suo presidente Carlo Rivetti

I giovani sudcoreani lo assediano come un idol K-pop, lo abbracciano, gli chiedono di tutto e lui mai dice di no, si presta a foto e video, sorride, all’occorrenza fa la V con le dita, autografa libri, felpe, calze, scarpe, pantaloni, cappelli, perfino un costoso laptop, non prima di aver provato a dissuadere il richiedente firma. «Quello con la Corea è un amore ricambiato», mi dirà, «lo hai visto, non mi risparmio». È vero: nei quattro giorni passati con lui a Seoul, Carlo Rivetti non si risparmia. L’occasione è Selected Works_Seoul ‘982-‘023: The Stone Island Archive, mostra (organizzata a settembre in concomitanza con la fiera d’arte Frieze Seoul) in cui sono esposti gli oltre 70 capi che hanno fatto la storia del brand che Rivetti guida da 40 anni e di cui oggi è presidente. Finirà stanco ma felice, gli occhi che brillano. Non si risparmia, e nemmeno sembra uno che nella vita lo abbia mai fatto quando di mezzo c’è qualcosa che ama.


Carlo Rivetti

Quello per la Corea è un amore iniziato nel 1994, molto prima che diventasse il Paese di gran moda che è adesso: «Mi ero reso conto che c’erano possibilità, si cominciava a intravedere una Corea moderna». Oggi, da queste parti, Stone Island è oggetto di culto, come nei suoi 41 anni di storia è capitato già altre volte, in epoche, Paesi e contesti tra loro distantissimi: sottoculture come i paninari e i tifosi di calcio e poi rapper, rockstar, designer… Come ci riesca, solo Rivetti può provare a spiegarlo: «Innanzitutto credo sia legato alla nostra storia: non so come altro dirlo, ma non abbiamo mai fatto “marchette”». C’entra anche «la barra» che Rivetti dice di aver tenuto «sempre dritta» su una rotta tutta sua, navigando al largo da certe dinamiche del fashion business: la scelta di essere fuori dalla moda per non essere mai fuori moda? «Esattamente», risponde. La stella polare seguita è stata sempre una: i tessuti. Ovvero la ricerca e la sperimentazione, spesso estrema, sui materiali, i cui risultati si possono ammirare passeggiando tra i 70 capospalla in mostra: giacche che cambiano colore con la temperatura o che riflettono la luce, fatte di metallo, di Kevlar, di Pvc, tinture in capo spericolate, trattamenti dei tessuti «ai limiti dell’alchimia»…


Rivetti si aggira tra le sue creature ora aggiustando un colletto, ora abbottonando una tasca, ora spianando una piega, come un padre premuroso: «È vero, quando entro nel mio archivio mi commuovo», ammette e avvampa e gli occhi si riempiono di lacrime e si interrompe. Ecco, forse uno dei segreti di Stone Island è anche quest’altra alchimia, capace di trasmutare i tessuti in emozioni? «È come la coperta di Linus», risponde: «Un nostro giaccone ha una vita media di circa 19 anni, quindi si crea un rapporto molto intimo con chi lo indossa. Non sai quanta gente mi dice “Ho i ricordi legati a una giacca Stone Island”», si commuove ancora. «Anche io ho tanti ricordi: è passata una vita. Ci sono stati momenti molto difficili, in cui sembrava che non ce l’avremmo fatta, come quando, a inizio anni 90, le banche mi hanno chiuso i conti. Ci sono voluti due anni prima di riguadagnare la loro fiducia». Due anni durante i quali, ammette sorridendo, ha sempre dormito serenamente: «Sì, perché ho un culo pazzesco: più grosse sono le difficoltà più dormo, e quando mi sveglio ho le idee più chiare».


Nelle sue idee chiare Rivetti non ha mai smesso di credere e, infatti, ciò che salta agli occhi guardando queste 70 giacche è la loro “coerenza”: «Sono il risultato di tre diversi uffici stile che si sono succeduti negli anni ma la differenza non si nota: c’è continuità. Il dna è rimasto lo stesso. E la sfida più difficile per me è stata mantenere quel dna». Merito suo? «Sì: non sono uno stilista, ma dentro ho fortissimo il dna di Stone. Ho creato un ufficio stile formato da un gruppo di creativi, e dato che non è facile riuscire a farli lavorare insieme, all’inizio restavo con loro, mi mettevo in disparte e ascoltavo, e quando sentivo che stavano per finire contro un muro li fermavo e li indirizzavo». Verso dove? «È semplice. Il brand è talmente forte che è lui a dirti quello che si fa: si parte dai tessuti. Punto». E si naviga lontani da certe sirene modaiole: «Non guardiamo dove va il mercato. In passato mi è capitato che mi chiedessero di fare delle cose per seguire la moda: ma perché farle se ci sono già?! Se “segui” sei già in ritardo. Facciamo piuttosto qualcosa di innovativo!».


Scoprire nuove strade, nuovi materiali, raccogliere sfide produttive, riuscire a trasformare la materia, a piegarla fino a farne un capo da indossare, ecco il carburante che ha sempre alimentato il motore di idee di Rivetti. Sentirsi dire «non si può fare» o «non si può tingere» lo esalta e l’incredulità dei fornitori, incapaci di riconoscere i loro stessi tessuti dopo il trattamento ricevuto nei laboratori di Ravarino (Modena), è uno spettacolino divertente a cui gli capita di assistere spesso. «Un’altra cosa che mi esalta è che in passato tantissime ricerche non sono andate a buon fine ma con le nuove tecnologie di cui disponiamo oggi chi lo sa, magari ora funzionano: abbiamo un notevolissimo bacino di insuccessi a cui attingere!». La ricerca e la sperimentazione sui materiali sono il cuore di Stone Island: «Dietro ognuno di questi 70 capi c’è uno sforzo titanico. Quando partiamo con una ricerca non pensiamo mai alla prossima stagione: se riusciamo a raggiungere l’obiettivo quel capo entra nella collezione successiva, altrimenti no». A volte possono volerci anni ma, grazie a questo approccio, oltre che “un ampio bacino di insuccessi”, Rivetti si è garantito anche «un grosso stock di ricerche già fatte, di progetti che funzionano. Direi che per almeno quattro o cinque anni posso stare tranquillo. La voglia è di metterli subito in collezione, invece bisogna resistere e aspettare, non esagerare, perché io sono per il “meno è meglio”, specie in momenti come questo, in cui c’è confusione sui mercati e devi dare segnali chiari e precisi».


Stone Island_Selected Works Seoul 1982-2023

Ecco, forse un ultimo segreto del successo di Stone Island sta nel dono che Rivetti ha, di capire il momento e prevedere il futuro. Come quando, osservando il modo in cui i figli si conciavano per andare a scuola, ha preconizzato con largo anticipo l’odierno trionfo dello streetwear: «La rivoluzione è cominciata dai piedi: se inizi a metterti le sneaker poi cambia tutto quello che c’è sopra. Credo che continueremo su questa strada, ma ci sarà una radicalizzazione: l’abbigliamento formale tornerà, perché i ragazzi hanno comunque piacere a mettersi eleganti in alcune occasioni, ma nella vita di tutti i giorni, una volta che ti sei abituato a vestirti comodo, non puoi più tornare indietro». La cravatta, per dire, non la indossa più da anni: «L’ultima volta è stata per la cresima di mia figlia Camilla: è venuta da me e timidamente mi ha detto “Sai papà, tutti gli altri papà vengono con la cravatta”… Come potevo dirle di no? Ne ho messa una di Topolino (ho una collezione di cravatte assurde). Dopo la cresima siamo usciti dalla chiesa, abbiamo fatto le foto, ho tolto la cravatta e da allora mai più messa».