American Gigolò: quarant’anni e non sentirli

American Gigolò: quarant’anni e non sentirli

di Andrea Giordano

A 40 anni dall’uscita nelle sale di tutto il mondo, American Gigolò non smette di influenzare, nella sua rivoluzione d’immagine:
la nascita di una star, come Richard Gere, e la consacrazione ulteriore di una leggenda, Giorgio Armani, che lì “debuttò” nel cinema.

Quarant’anni e non sentirli, marcando sempre una maturità di glamour e charme, che continua ad osare nel tempo. American Gigolò festeggia un compleanno importante, tondo, creando in egual modo attenzione e conversazione su come la moda e il cinema di fatto siano ridiventati, probabilmente da lì, un binomio irrinunciabile, destinato a far tendenza, a ridettare nuove regole, tra narrazione e i suoi giocatori. 

Un film chiamato a svelare profondamente aria di cambiamento nel panorama. Siamo innanzitutto nel 1980, un anno di passaggio, a cavallo tra due epoche, quella che sarà, di lì a poco, la decade anche degli arrampicatori sociali, i broker, i Gordon Gekko di Wall Street, dell’arrivismo sociale a tutti i costi. Un successo che passa attraverso la ricerca di uno stile ben definito, coraggioso, ambizioso, chiamato a rompere le regole del passato, andando oltre, e di cui, eredi simil designati, saranno poi, in là, i Patrick Bateman disegnati da Bret Easton Ellis, in American PsychoPaul Schrader, regista e sceneggiatore (già di Taxi Driver) ne aveva intuito le possibilità, quindi confeziona un thriller sofisticato, in cui i suoi personaggi, uno su tutti, lo gigolò Julian Gray, si muove seguendo binari chiari, tra corpo e bel vestire, tra sensualità e potere, tra denaro e ricerca estetica, tra la (non) paura di apparire e la realtà in cui si sente di poter dire la sua.

L’America di Carter, poco prima dell’avvento di Reagan, dunque prova a sognare in grande, lanciando contemporaneamente, nell’Olimpo, il volto di quel momento, Richard Gere, all’epoca trentunenne. Reduce da I giorni del cielo di Terrence Malick, e visto nel dramma bellico Yankess, firmato da John Schelesinger, Gere si trasforma d’un tratto in una star assoluta, che da lì ai prossimi anni si ergerà in ulteriore punto di riferimento fuori, e dentro, Hollywood, nel suo essere attivista, artista e voce carismatica. 

Ma qui, la differenza, il valore, la metafora tangibile, va rintracciata sopratutto negli abiti, i veri protagonisti, la “corazza” moderna, per raccontare, e mettere al centro, un uomo dalle forme diverse e sensuali, più elegante, che formale. L’occasione, unica, è quella di vedere all’opera (prima), in questo senso, Giorgio Armani, che allora debuttò in una collaborazione nell’orizzonte cinematografico (comparendo nei crediti come “costumista”), oggi, più che mai, consolidata in decine di progetti e ambita da tutti. Fin dalle prime scene ogni cosa appare chiara. Gere – Julian sfreccia sulla sua Mercedes 450 cabrio, risuonano le note di Call Me di Blondie (composta, insieme alla colonna sonora, da Giorgio Moroder), entra dal sarto, ma poi, in un taglio di scena memorabile, lo ritroviamo andare sicuro verso il suo guardaroba. 

È la chiave di tutto, la nascita del mito. Nella camera da letto, a torso nudo, mentre seleziona, accosta cravatte, abbina le tonalità migliori, l’armadio cela un mondo fatto di colori e tessuti più audaci, destrutturazioni, nell’imbottitura interna delle sue giacche, spalle larghe, sagome sinuose, dettagli, capi e tessuti meno tradizionali, vestibilità, neri e blu più intensi. Quella sequenza segna l’immaginario, grida a una forma di indipendenza annunciata.

«American Gigolo è senza dubbio un classico cinematografico – dirà poi Armani – che negli anni ’80 ha segnato uno spartiacque importante tra lo stile tradizionalista, fatto di una certa rigidità del vestire e uno stile più disinvolto. Proprio in quegli anni gli uomini avevano cominciato a dare importanza alla forma fisica, con una certa dose di vanità. Nel film volevo che questo nuovo narcisismo maschile apparisse nella sua forma più sexy proprio grazie al ruolo e all’interpretazione di Gere. Ho pensato quindi a un guardaroba completo, dalle camicie, agli abiti al cappotto, che fosse coerente e che sottolineasse il carattere del personaggio, un uomo fuori dagli schemi e sicuro del suo fascino».

Lo gigolò, conteso da ogni donna, ma che alla fine (scagionato da chi lo accusa di aver ucciso) ne amerà solamente una, è quindi complice di una trasformazione rivoluzionaria. Muta, ma non nasconde la fisicità, la propria mascolinità, cambia radicalmente sì, ma non abbandona la propria natura, semmai affascina in una consapevolezza rigenerata, piena di codici, desiderio di essere unico.

È la “legge” di Armani, quella che lo consacra alla leggenda vivente, al designer, creativo, genio, precursore, esempio, di un approccio romantico, eppure così rigoroso, cangiante, creatore nello “scavare” e interpretare uomini, donne, di capirli, e anticiparli. Quella pellicola, così, precede le evoluzioni dei look, procede a passo spedito portandosi dietro generazioni di seguaci, ammirati, di quanto quella prima collezione prêt-à-porter, inaugurata da lui in simbiosi, seppe aprire le strade, segnando il trionfo di una filosofia, ribattezzando ciò che si disse, e ancora narriamo, era, è, l’American Gigolò Style.