Un passato da surfista e sex symbol. Il presente da attore di talento dal forte sentimento religioso. Un antidivo con la missione di migliorare. E le infradito (spesso) ai piedi

Foto di MARK SELIGER
Stylist SIMON ROBIN


Ha fatto il carpentiere. A un certo punto si è messo persino a inscatolare piselli. Nel tempo libero puliva le barche dei ricconi ed è riuscito addirittura a farsi assumere da una banca come impiegato allo sportello. Ha recitato così tante vite che quando si è messo a recitare sul serio gli è sembrato un gioco da ragazzi. Matthew McConaughey è il tipo di ragazzo che, se deve scegliere tra un pomeriggio in Texas a cavalcare le onde e una serata di gala a Hollywood, non ha un istante di esitazione. Lo capisci dalle infradito che indossa con frequenza. Uno che dopo l’indimenticabile notte degli Oscar si è chiuso in cucina a friggere uova e bacon per la famigliola riunita a Los Angeles. Il massimo della vita. Altro che red carpet. Qualche anno fa, durante un’intervista dentro al Gramercy Hotel di New York, agli esordi del suo connubio con Dolce&Gabbana, gli fu chiesto quale fosse da ragazzo il suo profumo preferito. Il tipo di fragranza che laggiù, nel Texas, fa girar la testa alle ragazze. Matthew, il carpentiere, il surfista e poi anche l’attore di talento, ci pensò un paio di secondi appena: «A quell’età gli addominali al posto giusto e qualche traccia di sudore fanno impazzire chiunque». Panico in sala. E poi risata liberatoria. Oggi Matthew McConaughey si diverte accanto a una formosa Scarlett Johansson sul set di Martin Scorsese e Peter Lindbergh per il video e la campagna fotografica della fragranza The One e The One for Men di Dolce&Gabbana. È uno che non si confonde nel mucchio, Matthew. Non studia le risposte. Non fa il ruffiano per compiacere il mondo intero. È conscio dei propri limiti. Forse per questo va a messa quasi ogni domenica. Ma non è un fanatico, dice che non è indispensabile credere in Dio, basta scoprire che le parole del Signore ti fanno sentire a posto. Ti incitano a crescere. E lui di quell’aspirazione a essere migliore ci ha fatto una missione. Ogni ruolo è questione di vita o di morte. Non importa se è un detective maledetto nel sud degli States, un astronauta o un malato di Aids omofobo.

A volte Matthew può risultare ruvido, un po’ come lo è la sua gente nel Texas che, quando lo vede tornare a casa, lo saluta con un cenno appena, senza mai farsi incantare dai lampi della notorietà. E lui lo adora.
Matthew persegue valori antichi, regole di vita secche. Onore, responsabilità, amicizia. Se gli chiedi cosa pensa del suo quasi fratello Lance Armstrong, non propone versioni in saldo: «Ha fatto una serie di cazzate incredibili. La gente lo marchierà a fuoco ancora per un bel po’ e lui dovrà sopportarlo in silenzio. Per me resta Lance, il mio amico di sempre. Andiamo in bici assieme, chiacchieriamo, ci confidiamo. Chi sono io per giudicare?».

I suoi genitori, in verità, lo sognavano giudice, magari anche solo avvocato. No, non Matthew che scappò in Australia per un anno intero accettando qualsiasi lavoro – compreso inscatolare piselli – pur di evitare quel destino già scritto. Capì allora che alla vita si va incontro, perché quella non sta certo ad aspettarti.

[ RR ] A proposito di attese: per lavorare con Scorsese lei ha dovuto aspettare un bel po’. Adesso pare sia nato un connubio: prima l’ormai epico Mark Hanna in Wolf of Wall Street e ora questo mini-film commerciale per Dolce&Gabbana in coppia con l’irresistibile Scarlett Johansson. Che effetto fa recitare per qualcosa che non è un film e neppure una serie tv?

[ MM ] È un’esperienza diversa da tutto, ma proprio per questo divertente e stimolante. Non ha nulla a che vedere col cinema tradizionale. È un modo di raccontare una storia attraverso sensazioni. Bisogna fare leva sulle suggestioni, ci si muove senza copione, si deve assorbire uno stile, una certa atmosfera. È un po’ come ricreare un sogno, ammettendo all’inizio che si tratta proprio di quello. Di un sogno. La New York di molti anni fa, un tetto con lo sfondo della città, una bella coppia di amanti e tutto quello che l’immaginazione riesce a aggiungere oppure a togliere. Lo spettatore osserva e non è sicuro se quella cosa esiste, se ci siamo stati sul serio o se invece ci siamo immaginati tutto. È una forma di espressione sofisticata e attraente. Ed è normale che le aziende percorrano questa strada, in un mondo in cui la comunicazione è satura di messaggi che si accavallano senza lasciare il segno. Voglio dire, se c’è Scorsese di mezzo, è difficile passare inosservati.

[ RR ] Ne sa qualcosa lei: il suo primo impatto col maestro coincide con il momento più felice della sua carriera. Come se li conquista i suoi attori, Marty?

[ MM ] Con me è stato molto semplice. Scorsese è un regista molto musicale. Quando mi ha spiegato ciò che voleva da me in Wolf of Wall Street l’ha fatto usando il musical come riferimento. Più che ripercorrere la mia parte sul copione, abbiamo giocato sul ritmo, sulle battute, una specie di duetto cantato. E così pure sul set per D&G. Dunque mi ha subito conquistato. La melodia prima di tutto. Ho una passione viscerale per la musica.

[ RR ] Tipo che un giorno la vedremo esibirsi con una sua band?

[ MM ] No, non è esattamente quello che ho in mente. Ma mi diverto molto col pianoforte e soprattutto con le percussioni. Come vede si torna a parlare di ritmo, la recitazione senza ritmo non ha anima. È una passione personale, ho studiato e viaggiato molto per scoprire culture musicali lontane dalla nostra. Il Mali, ad esempio, ha dei percussionisti formidabili. E poi c’è il reggae di cui sono innamorato. Mi piace andare alle radici delle cose. Ho anche prodotto un album di musica jamaicana. Le racconto un aneddoto: per il mio esordio a Hollywood nel 1993 con Dazed and Confused, il regista Richard Linklater (oggi candidato all’Oscar per Boyhood, ndr) venne dal cast e ci sorprese perché per prima cosa consegnò a tutti un cd con il soundtrack del film. Attraverso la musica dovevamo calarci nell’atmosfera che lui voleva ricreare. Lo trovo geniale.

[ RR ] La vita dopo un Oscar cambia. Le scelte si complicano. Si ha paura di non poter sbagliare. È così?

[ MM ] In parte è vero. Ma bisogna ammettere che il numero di possibilità aumentano a dismisura. È necessario restare calmi. Con l’Oscar, almeno in apparenza, si conquista un potere maggiore. Ti arrivano proposte che qualche anno prima sognavi soltanto e si aprono prospettive che neppure sapevi che esistessero. Qualche brivido ti viene ma, per carità, la vera differenza la fanno la tua educazione e la tua pancia. Passata la sbornia, devi tornare a ragionare in base a quello che ti dice lo stomaco. Se un ruolo davvero ti spaventa, allora è quello che devi scegliere. Se un film ti fa sentire che stai rischiando qualcosa, allora è il film per te. Il vantaggio di avere esperienza consiste nel sapere da cosa vuoi stare alla larga. Ciò che si ricava dal vincere premi è che si è meno preoccupati di sbagliare. In un certo senso si è più liberi e questo per un attore è tutto. E poi naturalmente c’è il bisogno di lavorare sempre con persone che ti vanno a genio, che ti fanno sentire a tuo agio. Un’altra forma di libertà che in molti non hanno.

[ RR ] Lei è passato da una serie di commedie a una fase di semi-anonimato per vivere adesso un momento di incredibile popolarità e presenza massiccia sullo schermo. Era programmato?

[ MM ] No, non lo era. È un po’ come va la vita ogni tanto. Ho fatto molte commedie anche piuttosto fortunate, e poi forse ho deciso che era il momento di crescere. E non mi fraintenda: tornerò a fare commedie al momento giusto. Ma in quel preciso istante sentivo che per la mia carriera volevo altro. Sarà forse che nel frattempo sono diventato padre, che ho attraversato un momento di maturazione. Non importa, sarà quello che sarà. Alla fine si torna al punto di partenza: ho scelto sempre ciò che mi faceva paura, sapendo che era una strettoia obbligatoria. Mi sono concentrato sul lavoro e non su ciò che lo circonda. Chi mi conosce sa quanto mi piaccia Hollywood ma anche quanto io adori restarne a distanza di sicurezza. Quello che lei chiama periodo di anonimato è una fase che ho vissuto con consapevolezza: sono privilegiato, non avevo certo problemi economici. E dunque l’ho considerata una fase necessaria di attesa. Dico un po’ scherzando che ho saputo riconquistare il mio anonimato, per riuscire a modellare un nuovo me, una figura totalmente diversa. C’è gente che comincia a dirti: «Non sapevo che potessi fare quella cosa lì»… Vuol dire che hai fatto la cosa giusta. Così oggi le mie scelte sono dettate dall’emergenza. Ogni film che faccio per me è bisogno urgente.

[ RR ] La sua fede che ruolo gioca?

[ MM ] La mia fede è qualcosa di molto intimo. Ma se si riferisce alla mia frequentazione della chiesa, beh, è un posto dove di sicuro non fa male passare qualche ora. C’è buona musica, un tizio che dice cose che hanno senso, un bel po’ di gente che prova il piacere genuino di stare assieme. Insomma, una sensazione che non si batte facilmente.

[ RR ] Il suo prossimo film sarà sulla leggenda dei corridori a piedi scalzi di una tribù nativa del sud americano. In Mud, un piccolo e suggestivo film, fa la parte di cattivo in un sud che potrebbe essere il Texas. Ha un attaccamento forte alla sua terra?

[ MM ] Su questo non ci sono dubbi. Ma il timone è sempre puntato sullo storytelling. Se un copione è poetico, se tocca le corde giuste, me ne innamoro. Ed è inevitabile che un posto grande come l’America offra storie stupende da raccontare. Mud è una di queste. Mi ricorda molto la mia infanzia, l’odore dei prati, il fiume che scorre un po’ sonnolento. Sono ricordi impareggiabili e preziosi ed è perciò che anche un piccolo film riesce a farti sentire a posto col mondo.

[ RR ] Ogni tanto lei dà l’impressione che se potesse barattare la sua carriera di attore con quella di campione dello sport, non ci penserebbe un solo secondo.

[ MM ] No, si sbaglia. Adoro lo sport, mantenermi in forma, mettermi anche a dura prova. Ma da giovane ero piuttosto scarso in ciascuna disciplina, di quelle che potevano regalarmi una certa fama, a cominciare dal football per cui non ho mai avuto un fisico adeguato. Mio padre era un buon coach, ci ho pensato alla vita di atleta, ma solo per poco. Comunque la carriera d’attore dura molto di più… E se proprio dovevo fare l’atleta, avrei scelto il golf. Non sono così da buttare.

[ RR ] Lei è padre di tre figli, come glielo spiega cosa vuol dire vincere un Oscar, la fama e tutto il resto?

[ MM ] È molto semplice. Ogni volta che li lascio soli perché devo andare a ricevere un premio, o anche solo a presentare un premio che ho vinto l’anno precedente, dico loro come stanno le cose: «Il papà va in questo posto dove alcune persone gli fanno i complimenti per il suo lavoro». Il messaggio è chiaro: se hai disciplina, se fai le cose con onestà, se lavori duro, verrà qualcuno e ti dirà che sei bravo. Il papà è stato bravo. Tutto qui. E poi ricordo loro, naturalmente, che nella vita puoi essere bravo e disciplinato senza mai vincere niente. E tu devi essere comunque fedele a te stesso e felice di quello che fai. Se poi arriva anche un premio, sarà un qualcosa in più di cui godere. Lo dico a loro, e intanto lo ripeto a me stesso.

[ RR ] In quest’ultimo anno formidabile ha ricevuto molti complimenti: quale l’ha emozionata di più?

[ MM ] Non ho dubbi: è quando qualcuno mi dice che sono un padre eccezionale.


Set Designer COLIN DONAHUE,
Assistant Set Designer EVAN JOURDEN,
Seamstress KARINA MALKHASYAN,
Grooming KARA YOSHIMOTO.