Gli inizi sulle colline marchigiane, gli errori fortuiti e le intuizioni. Lardini festeggia 40 anni con due blazer ad hoc. E una nuova generazione pronta a disegnare il futuro.

A guardare Filottrano dalla strada, passandovi velocemente con la macchina, vengono subito alla mente quelle colline placide che facevano da salvaschermo alla maggior parte dei computer, con la complicità dei sistemi operativi di Windows. La differenza con la Napa Valley, dove quella foto venne scattata, è che in questo caso siamo di fronte ad un urbanistica molto più italica. Sulla loro cima, infatti, sorgono una pletora di scenografici palazzi in mattoncini rossi, torri del campanile, il palazzo del Comune in stile bramantesco. Insomma, siamo nelle Marche, e il panorama evoca cantiche leopardiane più che l’ elettrizzante distretto prodottivo dove si immagina (e produce) il domani. Eppure è da questo bucolico osservatorio che, 40 anni fa, Luigi Lardini ha guardato il panorama che si stendeva oltre quelle valli, immaginando la sua prima collezione d’abbigliamento maschile. A dare forma a quella visione di diciottenne, molto prima che coniassero il termine start-up, un investimento del padre e l’aiuto dei fratelli maggiori Andrea, ingegnere informatico e oggi presidente dell’azienda, e Lorena, a capo della gestione finanziaria. Un terzetto al quale poco dopo si è unita la più piccola, Annarita, dedita al controllo qualità di tutti i capi che escono dallo stabilimento.

E, ad oggi, in quello stesso stabilimento dove lavorano 450 dipendenti, ne vengono prodotti circa 2mila ogni 24 ore, producendo un ricavato di 73 milioni nel 2017 con proiezioni per il 2018 che arrivano ai 90. Numeri che raccontano di un progetto nato con l’entusiasmo e la sfrontatezza di un giovane e trasformatosi in una realtà matura, che quest’anno, complice il giro di boa dei 40, celebra l’heritage del passato. Così, il 19 settembre, data ufficiale dell’anniversario, arriveranno negli store due giacche in edizione limitata, entrambe nella cromia istituzionale del marchio, il blu. A unirle idealmente il fiore, simbolo di Lardini normalmente portato all’occhiello e che qui si ritrova all over sui due blazer. Se uno però si costruisce su una maglia di filati in lana e spugna di lana, capaci di dare tridimensionalità ai petali, l’altro si intesse su un telaio jacquard di lana pettinata e filo cardato, regalando un effetto in rilievo. Pezzi numerati, che compariranno nelle vetrine indossati con peacot, field jacket, parka e montgomery in cachemire, mohair, alpaca e Solaro che hanno subito un processo di demilitarizzazione, per arricchirsi di bottoni d’osso, interni in vaiella da camiceria e martingale. Un armadio, quello dell’inverno alle porte, che si arricchisce di texture inconsuete come il woold, mix di lana e shetland, e il mowear, crasi su tessuto di lana ritorta a filo grosso e viscosa stretch. Una consistenza, quest’ultima, dalle caratteristiche waterproof, con qualità simili a quelle del jersey, ma dall’eleganza dégagé, ispirata alla Gentry, la nobiltà di campagna inglese.

Oltre la stagionalità e i dovuti festeggiamenti, però, la testa è già nel futuro. Una nuova era nella quale ad essere protagonista sarà la seconda generazione di casa Lardini, nata e cresciuta tra i corridoi dell’azienda. Un’infanzia della quale Leo Moretti, che guiderà il futuro di Gabriele Pasini, marco in comproprietà, ha dei chiari ricordi.

Era la metà degli anni ottanta, e correvo con i pattini a rotelle tra le macchine da cucire. Questa è la prima immagine che mi viene in mente, se penso a com’è stato crescere. La consapevolezza di far parte di una famiglia con un retaggio importante per lo stile italiano è arrivata dopo, nell’estate del 1992. Dal nostro primo punto vendita a Filottrano è passato a fare acquisti Philip Michael Thomas, l’agente Ricardo Tubbs di Miami Vice. In abito elegante, eppure molto moderno. 

Una educazione sentimentale e professionale che li ha preparati per il futuro che verrà. In altri casi, come in quello di Brenna, incaricata di gestire le pubbliche relazioni, si è invece trattata di casualità, o forse destino.

Il mio programma iniziale era un altro: ho studiato Lingue e civiltà dell’Oriente, a Firenze, affascinata dalla cultura del Giappone. Poi quattro anni fa, ho deciso di entrare a far parte dell’ufficio stampa aziendale: la realtà è che avevo passato gran parte della mia vita sui libri, e sono sempre stata di natura molto riservata. Lavorare nell’ambito della comunicazione, raccontare agli altri il posto dal quale vengo, in senso di marchio e in senso di famiglia, è una sfida, ma il dinamismo che si nasconde dietro quest’azienda mi ha aperto porte sul mondo che non mi aspettavo.

Per Genea, che ha il compito di plasmare l’estetica della donna Lardini, il DNA, semplicemente, non ha lasciato scampo.

Ho studiato pittura in Accademia. Il mio percorso non aveva nessuna relazione con l’azienda, mio padre (Luigi, direttore creativo di Lardini, ndr) non mi ha mai imposto un futuro prestabilito. Ma poi, andando avanti negli anni, ti rendi conto di avere ereditato predilezioni e gusti. Da lui ho appreso l’ordine, che ti consente di far meglio qualunque lavoro, e la pulizia estetica, che ti permette nel nostro ambito degli abbinamenti raffinati. Così oggi ambisco a plasmare l’estetica della donna Lardini, che è nata in un secondo momento, come compagna indipendente dell’uomo.

Una potenza, quella delle radici, confermata da Alessio, erede diretto di suo zio Luigi, e oggi impegnato nell’ufficio stile Lardini.

Anche io ho fatto l’istituto d’arte, come mia madre, ma credo che quest’attitudine alla creatività scorra nelle vene di tutti i noi. Certo, fondamentalenel mio caso è stata la guida di mio zio Luigi: una certa idea di eleganza, una concezione particolare del bello che mi hanno involontariamente formato.

Un percorso, il suo, che ha già raccolto i primi risultati.

Sono nato con i blazer di Lardini, il primo l’ho indossato al mio debutto al Pitti, nel 2002, e ho spesso pensato a quello che sarebbe stato perfetto per me. E poi sono stato talmente fortunato da riuscire a realizzarlo. Cinque anni fa, con il mio team abbiamo creato un blazer in maglia, che univa la praticità del tessuto alla ricercatezza di disegni esclusivi, pensati da noi. Ad oggi, è uno dei best seller della collezione.

A giocare un ruolo fondamentale, è anche il lavoro di squadra, che, se nel caso della prima generazione era aiutato da un forte legame di sangue, qui si costruisce sulla base di interessi comuni, passioni sulle quali forgiare intese che si traslano poi anche nel lavoro, come nel caso di Alberto Santolini, che ha seguito le orme di sua madre Annarita, divenendo responsabile dell’assistenza tecnica e dei macchinari.

Seguivo mia madre a lavoro da bambino, e poi per un anno ho affiancato una ditta di Filottrano specializzata nella riparazione di macchinari d’industria tessile. Un lavoro che richiede precisione, il mio, e che lei mi ha insegnato. Fuori, però, sono appassionato di downhill in bici, e anche di auto e fuoristrada, gareggiando occasionalmente insieme a Leo. Lui il pilota, io il navigatore. Una passione comune che ci ha insegnato come i sacrifici, volontà e lavoro di squadra siano fondamentali per raggiungere qualunque obiettivo.

Ambizioni e risultati ai quali, chi è venuto prima di loro, guarda con la tenerezza di un genitore, e la consapevolezza di navigati uomini (e donne) d’azienda.

Il mercato al quale si affacciano questi ragazzi è diverso rispetto a quello nel quale abbiamo iniziato noi – racconta Luigi – ma in una situazione di crisi economica, paradossalmente, è più probabile emergere con un prodotto di qualità.

Una situazione, quella attuale, per la quale la nuova generazione è perfetta, secondo il fratello Andrea.

Il mercato è velocissimo, l’influenza dei social enorme, fenomeni come il see now -buy now rendono il prodotto vecchio prima che arrivi sugli scaffali, ma loro sono molto più preparati, essendo nati con questo sistema che gli scorre nelle vene. Gli errori? Li faranno come li abbiamo fatti noi, anche perchè sono spesso portatori di rivoluzioni. La nostra collezione del 1993, Kashmere House, è nata da lì: una linea di giacche in cachemire che, non avendo ancora la competenza del prodotto che abbiamo maturato oggi, abbiamo lavato male e si è ristretta. Da quella nuova silhouette che sembrava un fallimento, però, è nata una stella che è piaciuta molto e che oggi è uno dei simboli dello stile Lardini, da ricordare in questo viaggio nel tempo.

Un cammino verso il futuro, e dal respiro più internazionale che potrebbe cominciare, ancora, da quelle colline.

Le saprei disegnare a memoria – dice Clio Moretti, a capo della parte digital – sono stata l’unica ad andare via per studiare fotografia, ma poi sono tornata qui. La macchina fotografica è un mezzo fondamentale per comunicare la propria visione, non solo estetica. Per lavoro seguo i social dell’azienda di famiglia, e mi occupo anche della produzione del materiale fotografico. Mi piace il reportage, e lo stile documentaristico di Robert Capa. Chissà, un giorno mi piacerebbe raccontare il marchio scattandolo con un occhio diverso, magari tra quelle colline.

In fondo, ci sono almeno altri quarantanni da scrivere.

L’intervista è a pagina 188 di Icon n°45, ora in edicola