Niang, De Sciglio, Perin, Faraoni: personalità, sogni, stile e radici di quattro uomini a tutto campo. Quattro talenti su cui scommettere: loro cambieranno il gioco.

Velocissimo di mani e altrettanto rapido con le parole, Mattia Perin è destinato ad essere un numero uno: portiere rivelazione del bersagliatissimo Pescara, ha già raccolto paragoni illustri (da Bordon a Buffon) e offerte di lavoro da capogiro, in Italia e all’estero. Nato a Latina nel 1992, cresciuto a Genova e consacrato sull’Adriatico, osserva con interesse lo svolgersi del suo destino. Che ogni volta lo conduce al mare.

Nella tua vita esiste solo il calcio?

«Adoro anche il tennis, e a Latina sono socio del club Nascosa. E poi gli sport da spiaggia: giocherei a beach volley tutto il giorno, potendo».

Anche la tua pettinatura e un po’ da tennista, non trovi?

«È l’unica che mi dona. E mi distingue. Le creste ormai sono peggio dell’iPhone: ce le hanno tutti».

Dove andrai in vacanza quest’estate?

«Negli Stati Uniti: venti giorni in automobile, coast to coast».

Nella tua valigia c’è spazio per i libri?

«Certamente. Sono un divoratore di biografie, mi piacciono i personaggi che hanno conquistato il mondo partendo dal nulla: il libro di Agassi, Open, l’ho letto due volte».

Cosa t’aspetti d’imparare da loro?
«Il segreto per trovare un equilibrio negli alti e bassi del successo».

Mattia De Sciglio non porta creste, né fuori né dentro. Sempre misurato, laccato e preciso nei concetti, è il campione meno “calciatore” dell’ultima generazione. Classe 1992, cresciuto nelle giovanili del Milan, ha debuttato in prima squadra il 28 settembre 2011. Poi è arrivata la convocazione in nazionale. E lo stupore di ritrovarsi personaggio.

Sei naturalmente te stesso o hai studiato un modo per distinguerti?

«Naturale al cento per cento. Sul lavoro sono serio, attento e concentrato. Al di fuori, invece, è giusto divertirsi».

Sei stato educato con piglio militare?

«Vengo da una famiglia di sportivi: mia madre è stata una nuotatrice, mio padre un combattente di Savate. La disciplina sapevano bene cosa fosse, e anche come trasmetterla».

Cosa ti ha sorpreso di questi primi mesi sotto i riflettori?

«L’apprezzamento unanime per il mio modo di essere, semplice e sotto le righe. Credevo che persone come me passassero inosservate. E invece».

C’è una cosa che da quel bravo ragazzo di De Sciglio uno non s’aspetterebbe?
«La passione per i tatuaggi. Ho appena fatto il primo. Ora ne voglio molti altri».

Cresciuto alla periferia di Parigi con la sorella gemella e i due fratellini più piccoli, la promessa del Milan M’baye Niang a 18 anni ha deciso da che parte stare: tra la chanson française e le rime dure della musica di strada, tra la storia millenaria europea e il richiamo del sangue, ha scelto la strada e il sangue. Svelando un lato artistico che nessuno conosce.

Nelle tue scelte stilistiche ti senti più influenzato dalla cultura nera oppure bianca?

«Dalla cultura nera, al cento per cento».

Anche musicalmente?

«Certo. Ascolto esclusivamente rap francese e americano».

Scrivi canzoni?

«Sì. Storie dedicate alla mia famiglia e agli amici. Ma non è una cosa che mi piace dire in giro. Alcuni di loro neppure lo sanno».

Hai altri sogni segreti?

«Be’, cantare le mie canzoni. E diventare un attore comico».

Qual è il capo d’abbigliamento senza il quale il tuo stile risulterebbe compromesso?

«Le scarpe da basket».

I tuoi marchi preferiti?

«Dsquared e D&G».

Se potessi fuggire da Milano domani, dove andresti?
«In Brasile. Prima a vedere una partita del Santos. E poi dritto al mare». 

Calciatori come Marco Davide Faraoni non ce ne sono più: schietto, casinaro, s’esprime con un accento romanesco

da film e non cerca di apparire ciò che non è. Sembra uscito direttamente dagli anni 70 (ma è nato

nel ’91), quando in serie A si parlava la lingua dei campetti di periferia e non il vocabolario di legno

del calcio televisivo. Ora fa il terzino a Udine. Ma le sue radici sono molto lontane.

Quando ti hanno visto in slip nelle foto di Domenico Dolce per il libro Campioni, i tuoi vecchi amici come hanno commentato?

«Si sono messi a ridere. Nessuno in effetti avrebbe mai pensato che il Faraoni di Pisciarelli un giorno avrebbe posato per un grande stilista. Un po’ di imbarazzo l’ho provato, lo ammetto».

Nel tuo paesino di 500 anime sul lago di Bracciano, dove giocavate a calcio?

«Nel piazzale della chiesa. Organizzavamo partitoni pure la domenica mattina, con la gente che andava a messa: il parroco, Don Giorgio, mi odiava. A quel tempo avevo anche un soprannome, “er Tempesta”».

Er Tempesta di Pisciarelli s’è già comprato la Ferrari?
«Scherzi? Costa troppo. Non esiste».

Foto Paolo Zerbini

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Testi Raffaele Panizza