Dalla serie B alla corte degli sceicchi, Marco Verratti occupa un posto speciale tra le promesse italiane: è lì, nel cuore del campo, dove il gioco prende forma.

Eppure il meglio di sé è obbligato a darlo senza il pallone tra i piedi. Fuori dal campo, dove uno dei talenti più corteggiati del calcio europeo si trasforma in un altro tipo di atleta: un funambolo, sospeso tra due ostacoli. Da un lato, il troppo entusiasmo che può bruciare le ali a chi ha bruciato le tappe; dall’altro, la nostalgia delle radici, quella che a volte fa lo sgambetto quando si va a correre lontano. Quella nostalgia che gli fa dire: «Di Pescara mi manca tutto. La famiglia, gli amici, le passeggiate sul mare» (salvo poi aggiungere, quasi volesse correggersi: «Parigi non mi fa mancare niente»). O magari quella che gli fa raccontare di aver cambiato appartamento perché i condomini non volevano parabole sul balcone e non c’era modo di ricevere la tv italiana.

Marco Verratti cerca l’equilibrio tra il peso dell’ambizione e la leggerezza della sua età, tenendo i grandi occhi chiari sempre aperti, puntati sull’obiettivo di continuare a crescere e attenti a non perdere nemmeno un frammento delle rivoluzioni che continuano a travolgerlo. Arrivato da Manoppello, paesino abruzzese di poche migliaia di anime, oggi è uno dei tanti milioni di umani in giro per la Ville Lumière; vestiva i colori della sua città, il prototipo massimo di metropoli per chi viene dalla provincia, oggi passeggia tra i boulevard, ha Ezequiel Lavezzi come vicino di casa, Zlatan Ibrahimovic e David Beckham come compagni di squadra. È stato chiamato in Nazionale e ha ricambiato la fiducia con un gol contro l’Olanda, mentre il suo club, il Paris Saint-Germain, cerca di blindarlo perché teme gli assedi di Juventus e Real Madrid. Lo hanno soprannominato “il piccolo principe”, sembra il protagonista del libro di uno scrittore con un abbondante senso dell’ottimismo, invece la sua è la vita qualunque di un ragazzo fuori dal comune. Un ventenne che, nel guado delle contraddizioni, ha capito che l’unico modo per non smettere di correre è rimanere con i piedi per terra.

Qual è stata la tua prima reazione quando ti hanno detto che saresti andato a giocare in Francia?

«Ho pensato che sarebbe stato un trauma. Non c’ero stato nemmeno in vacanza, non avrei mai immaginato che avrei dovuto viverci».

E una volta superato lo shock?

«Mi sono ambientato».

Ecco, stai per dire le solite parole che i calciatori ripetono come una cantilena: che è merito dei compagni, del mister, della società, eccetera eccetera.

«Ed è vero, ma il merito è anche del mio carattere: vado d’accordo con tutti. A tanti sono simpatico, gli altri apprezzano la mia sincerità. Se ho qualcosa da dire, la dico in faccia».

Sembra una lezione imparata da un campione di schiettezza come Zdenek Zeman, che a Pescara ti ha dato tanta fiducia.

«E mi ha insegnato a non mollare, soprattutto dopo un infortunio».

Con Ancelotti come va?

«Gli sono grato due volte. Perché mi sta facendo esprimere ad alti livelli e perché grazie a lui la lingua ufficiosa nello spogliatoio è l’italiano. In fondo, oltre a noi due, almeno una dozzina di compagni lo conoscono bene».

Il francese è così difficile?

«Non ho particolari problemi quando qualcuno si rivolge a me, ne ho un po’ di più quando devo essere io a parlarlo. In generale, mi perdo qualche dettaglio: per esempio, ho visto un film che mi è piaciuto molto, Quasi amici, e ho voluto riguardarlo in italiano per apprezzare tutti i dialoghi».

E la cucina parigina, la apprezzi?       

«Preferisco andare nei ristoranti che hanno uno chef italiano. Qui in Francia non hanno un piatto che sia all’altezza delle nostre lasagne».

Sembra che tu non veda l’ora di fare le valigie e tornare a Pescara.

«Non è così. A livello calcistico sto benissimo, per quel che riguarda il lato affettivo cerco di sopperire. Genitori e amici vengono spesso a trovarmi, e poi convivo con la mia fidanzata».

Che sarà gelosissima. Sei un calciatore giovane, di talento e sotto i riflettori.

«Non nego di essere lusingato quando mi fanno la corte, ma finisce lì. La mia ragazza è fondamentale per me. Stiamo insieme da quattro anni».

E le hai dedicato un tatuaggio.

«Sul braccio sinistro, una sagoma delle sue labbra con sopra una scritta, in spagnolo: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”».

Quand’è che la sera nel letto ti dici: «Oggi ho onorato questo proposito»?

«Quando in campo mi diverto e riusciamo a imporci. Non avrebbe senso negarlo: nel calcio il bello è vincere».

E tu sei il primo a essere paragonato a molti vincenti. Il confronto ricorrente è di quelli più impegnativi: Andrea Pirlo.

«Ora dirai che è scontato, ma ti dico che la cosa mi riempie di orgoglio. Tento di copiare, di apprendere dal suo stile. In generale provo a imparare sempre da chi è più bravo di me, senza gelosie. Per migliorarsi è fondamentale riconoscere il giusto merito agli altri».

Provi a scippare qualche segreto anche a Ibrahimovic?   

«Non solo, con lui è proprio diverso. Mi ha preso sotto la sua ala, andiamo d’accordissimo. Bisognerebbe smetterla di divinizzare i grandi calciatori: sono persone normali, che cercano di condurre una vita normale».

Da piccolo sarà capitato anche a te di mitizzare qualcuno.   

«Zidane. Quando giocavo a pallone con gli amici, immaginavo di essere lui».

Anche dopo la testata a Materazzi?

«Sì, sono sbagli che capitano. Nel calcio come nella vita. E non possono cancellare una carriera straordinaria».

Carriere che spesso portano in dote tantissimi soldi. Tu che sfizi ti sei tolto?

«Ancora nessuno».

Balotelli si è comprato una Bentley. Potrebbe essere un’idea.
«Ognuno asseconda le sue passioni. Se ho due giorni liberi, per me il lusso è andare in vacanza in un posto dove non sono mai stato. Oppure, ancora meglio, prendere l’aereo e tornarmene a casa». 

Fashion assistant Marco Dellassette

Grooming Giordano Pierini @ Agence Carole Paris

Foto Satoshi Saikusa

Fashion editor Andrea Tenerani

Testo Marco Morello

Fashion assistant Marco Dellassette
Grooming Giordano Pierini @ Agence Carole Paris.