Nella hall del London Ace Hotel per farci guidare dagli ospiti alla scoperta di una metropoli inattesa

Dalle 9 alle 19 nessuno parla con nessuno, nella lobby dell’Ace hotel di Shoreditch High Street, Londra. Ma non c’è silenzio. Piuttosto, vibra a tono basso il bradisismo di decine di persone al lavoro: ventiquattro intorno al lungo tavolo davanti alla reception. Gli altri sui divani, in un rispettoso non considerarsi minimamente, dita sui computer, suoni che ronzano in cuffia, telefonate iniziate dentro e finite fuori.

Non sono ospiti dell’albergo, ma succhiatori di wi-fi. Non parassiti quanto organismi simbiotici, visto che è regola dell’hotel tener viva la lobby accogliendo la classe creativa del quartiere, come parallelamente è buon costume delle cameriere non imporre mai una consumazione. Finché poi, alle 19,01, attacca il deejay e il flusso di lavoro si trasforma in fluido di drink bevuti in piedi, il ristorante Oi Polloi si riempie, col suo menu fatto di carta di giornale e l’editoriale in ultima pagina. Al piano di sotto uomini nudi leggono racconti (è il Naked man reading club, che si riunisce il mercoledì sera nella discoteca dell’Ace). Mentre nelle camere più costose qualcuno sta suonando la Takamine acustica che in diverse stanze si trova appesa al muro, perfettamente accordata (“la mano sinistra è ciò che sai, la destra ciò che sei” c’è inciso sulla cassa armonica) e acquistabile per 600 sterline. Così come acquistabile è il giradischi analogico e i vinili della Motown impilati di fianco al letto. Mentre ormai non c’è nulla da fare per il fondatore di Ace Hotel Alex Canderweell, che il 14 marzo di un anno fa ha bevuto e fumato crack fino ad ammazzarsi proprio in una di queste suite da 300 sterline, faccia nel cuscino, riccioli neri dappertutto e “una bottiglia rotta di brandy usata come pipa”, hanno scritto le cronache del giorno dopo.

La lobby dell’Ace però, dove abbiamo trascorso 4 giorni osservando stantuffare un pezzo della sala macchine che tiene in moto Londra, è quanto di più lontano dall’idea di dissoluzione si possa immaginare. Chakir
ed Eva ad esempio hanno un pacchetto di Marlboro tra le gambe ma per ore non ne fumano neppure una, e tantomeno alzano gli occhi dai loro Asus, impegnati nel ruolo di neotraghettatori a cavallo della Manica: «Troviamo casa, lavoro e divertimenti alle migliaia di francesi che vogliono trasferirsi qui», racconta Chakir, che cerca convenzioni per far provare ai connazionali il pub-crawl: un tour “bar to bar” per sole 10 sterline, dal riscaldamento al Trapeze fino alle 5 del mattino al Club Gago. Di fianco a loro c’è Augustin, regista, che sta aspettando per un colloquio di lavoro un potenziale assistente:
«È in ritardo di 15 minuti, non lo assumerò mai», dice, lui che ha bisogno di gente che non sgarra per i documentari gonzo che gira con le band della scena surf-trash. Poi c’è Claire Fouché, che ha fondato una startup di gioielli africani in legno di Jacaranda. O Amy, che si occupa di uguaglianza e diritti del lavoro delle donne inglesi. Bisogna salire solo tre gradini per entrare in questa hall e incontrarli tutti. Il concierge, col cappellino da baseball in testa, sorride e dice: buonasera. E benvenuti.