La scienza del bene: come fare del bene agli altri si riflette positivamente su di noi

La scienza del bene: come fare del bene agli altri si riflette positivamente su di noi

di Davide Piacenza

È stato dimostrato scientificamente: far del bene agli altri fa bene anzitutto a noi stessi

Il poeta e aforista italo-tedesco Arturo Graf scrisse a cavallo tra Ottocento e Novecento che «il modo più sicuro per rendere la vita piacevole a noi stessi è renderla piacevole agli altri». Un aforisma di bontà francescana? No, o non soltanto: il buon Graf ci aveva visto lungo. Quello che a prima vista potrebbe sembrare soltanto un toccante esercizio letterario di buoni sentimenti da parte di un intellettuale in realtà nascondeva già al tempo un nocciolo di verità scientifica: fare del bene agli altri lo fa – fisiologicamente – anzitutto a noi stessi. Quella piacevole e calda sensazione di torpore che spesso segue un gesto di gentilezza disinteressata non è il prodotto dell’autosuggestione: gli atti di bontà possono rilasciare ormoni che contribuiscono a migliorare l’umore e il nostro benessere generale, con un procedimento così assodato da aver fatto il suo ingresso in alcune pratiche di psicoterapia.


Tutto ruota attorno all’ossitocina, il cosiddetto “ormone dell’amore”, che il nostro corpo secerne quando formiamo legami affettivi e sociali – è, tra le altre cose, prodotto anche dalla donna per favorire l’allattamento – e nei momenti di intimità: ci rende più fiduciosi verso il prossimo, ma abbassa anche la pressione sanguigna, con benefici per il sistema cardiovascolare. E, soprattutto, ci rende più inclini alla gentilezza gratificante: un atto di altruismo ripetuto anche per una sola settimana, ha scoperto una ricerca dell’università di Oxford pubblicata nel 2018, ha migliorato significativamente i marker di felicità dei soggetti partecipanti allo studio. Già un decennio prima la Business School di Harvard aveva fatto una scoperta ancora più eloquente: in una pubblicazione dedicata al tema della beneficenza, gli studiosi Elizabeth Dunn, Lara Aknin e Michael Norton avevano appurato che i soggetti che avevano speso denaro per gli altri registravano livelli di contentezza mediamente più alti di coloro che l’avevano destinato a sé.
Ma fare del bene rilascia anche altri neurotrasmettitori di fondamentale importanza: la dopamina regola il senso di appagamento e i meccanismi di dipendenza, e ci dona stati di euforia che siamo portati a replicare, mentre la serotonina è la sostanza chimica che presiede ai livelli di ansia e al tono dell’umore (e chi soffre di patologie legate alla salute mentale sa bene che la sua mancanza è associata a depressione e disturbi dell’umore).


È proprio sul versante della psicoterapia che si innestano le maggiori speranze di sfatare l’adagio disfattista-egoista secondo cui a fare il bene ci si rimette sempre: la cosiddetta mindfulness, un caleidoscopio di pratiche sempre più integrate nella prassi terapeutica, usa la meditazione per riflettere e incorporare le gentilezze nella vita quotidiana. Tutte cose che Charles Feeney, pioniere mondiale dei negozi duty-free negli aeroporti, ha capito tanto tempo fa: negli anni Ottanta, a una cena di gala con altri miliardari come lui, confessò che essere ricco non lo rendeva felice. Nessuno gli credette. Ma lui di lì a poco costituì la sua The Atlantic Philantrophies, una fondazione con cui in 40 anni ha donato al mondo intero più di otto miliardi di dollari – tutto il suo patrimonio – arrivando recentemente alla fine dei suoi giorni da anziano in affitto in un appartamentino di San Francisco, a cui tornava in autobus. Per essere ricchi davvero, basta avere d’oro il cuore.