Il 15 giugno, a 100 anni dalla sua nascita, si celebra il mito di Alberto Sordi, pittore eccelso della parola e della mimica che ha fotografato l’italiano medio nei suoi tic, stereotipi e fragilità.

Alberto Sordi il Grande, o semplicemente l’Albertone nazionale, quello che è stato, e rimane, uno dei migliori interpreti di sempre, capace di lasciare intatta una forma di eredità unica, quella dell’(arci)italiano medio, rinnovandosi così alle generazioni, chiamate, ora, doverosamente, a riscoprirlo, nello scoccare del centenario della sua nascita. Per lui parlano sessant’anni di carriera, iniziata nel 1937, grazie a Scipione l’Africano, fino al 1998 (Incontri proibiti), in tutto 146 film, 19 da regista, tra cui Fumo di Londra e Polvere di stelle, duettando, da commediante scalcinato, con Monica Vitti..(“ma’ndo Hawaii”).

E poi la radio, il teatro di rivista, l’esperienza da doppiatore (fu la voce inconfondibile ad Oliver Hardy, ma pure di Anthony Quinn e Robert Mitchum), e soprattutto una carrellata di personaggi ormai inseriti nel Pantheon dell’immortalità cinematografica: Il vigile Otello Celletti, Il medico della mutua, Dott. Guido Tersilli, Nando Moriconi di Un americano a Roma (“Maccarone, m’hai provocato e io distruggo”), o il marchese affabile Onofrio del Grillo.

Nella splendida tavolozza dell’attore ha saputo però metterli in ordine, da pittore eccelso della parola e della mimica, quasi fosse un appello, dove ognuno aveva l’obbligo di presenziare, sdrammatizzando i nostri lati peggiori, con lui, infine, ad impallinarli tutti, anticipando i tempi. Dando vita a una moltitudine di maschere, comiche, drammatiche, dolorose, impertinenti, ironiche, complici, ciniche, Sordi regala (il presente è d’obbligo) ogni volta forma, spessore e contenuto ad una personalità già clamorosa in termini antropologici, seppur rigorosa nel privato.

La percezione di perdita (fisica), avvertita dal 2003 quando il 24 febbraio scomparse e la sua città (l’Italia intera in realtà) pianse a dirotto, non ha, però, spento quello stupore miracoloso delle sue innovazioni, satire deformanti e spietate, di tic, movenze, rappresentazioni di stereotipi, luoghi comuni, in periferia, in città, centrando spesso l’obiettivo, ma senza mai eccedere o andare oltre. Un fenomeno paranormale, parafrasando uno dei lavori di Sergio Corbucci, prevaricatore, a tratti odioso, cangiante, chiamato a raccontare il cambiamento economico, il disagio, l’asprezza del vivere, la burocrazia, la furberia sociale, da vedovo a marito, da seduttore a ingenuo disincantato, da avaro a impavido mattatore.

Da solo, comunque, non avrebbe potuto farcela, se non ci fossero stati accanto, o dietro la macchina da presa amici fidati, grandi maestri rimpianti, collaboratori, compagni d’avventura, che con lui si sono divertiti e lo hanno scontornato al meglio delle sue possibilità, tra cui Scola, Risi, Monicelli, Pietrangeli, Lizzani, Nanni Loy, Steno, Alberto Lattuada, Luigi Magni, Blasetti, Dino Risi, Mario Soldati, Mastrocinque. E ovviamente pure lui, festeggiato da poco nel suo centenario: Federico Fellini, che nel 1952, riesce a regalargli il primo vero successo sul grande schermo, Lo sceicco bianco, il sogno da fotoromanzo di Wilma, a cui poi segue I vitelloni, quel “lavoratori”, misto a gesto dell’ombrello e pernacchia, entrato nel vocabolario delle citazioni.

Eppure c’è anche un Sordi sordido, crudo, vendicativo, sfinito nell’anima, assassino incompreso, tanto bravo e convincente nel ribellarsi alla mala società, al lobbismo, in cui perde la dignità (Il maestro di Vigevano), ma che riacquista spavalderia. Il cavallo di razza, non il Nestore dell’ultima cosa, lo si ritrova piuttosto in altre sfumature, da il giornalista di sinistra Silvio Magnozzi in Una vita difficile, al suberbo Giuseppe Di Noi, umiliato, accusato ingiustamente, in Detenuto in attesa di giudizio (Orso d’argento per il miglior attore a Berlino), o al Giovanni Vivaldi, padre devoto verso il figlio Mario, freddato fuori dalla banca, in Un borghese piccolo piccolo, che innesca, in uno stato assente, il suo giustizialismo privato. Inquieta e rassicura, si ribella ai padroni, fa “vacanze intelligenti”, diventando opera d’arte, ‘nuovo mostro’, per poi immolarsi, fingendo di essere vigliacco, come l’Oreste Jacovacci, che da soldato timorato, se ne esce eroe silenzioso nel finale de La Grande Guerra.

Cavalca la miseria e nobiltà della storia, interpretando Nerone e Gastone, arriva pure a farsi graziare dal Papa Pio VII-Paolo Stoppa ne Il marchese del Grillo, prova a sfondare come presentatore nei panni di Gugliemo il dentone (l’episodio de I complessi), si quadruplica per Tinto Brass (Il disco volante) o a battere, senza riuscirci, Bette Davis, giocando a Lo scopone scientifico. In tv è stato uno straordinario Don Abbondio ne I Promessi Sposi, ma riuscirà a infilare l’abito talare anche in altre circostanze (Addio alle armi o Anastasia mio fratello), e da Tassinaro, caricando nuovamente il prode Fellini e Giulio Andreotti, scortandoli nella strade capitoline rivestendo i panni di una guida d’antan. 

Perchè in fondo Sordi siamo (stati) tutti noi.