Chi era Enzo Ferrari? Michael Mann ci racconta il suo film evento
Adam Driver, protagonista di Ferrari, diretto da Michael Mann

Chi era Enzo Ferrari? Michael Mann ci racconta il suo film evento

di Andrea Giordano

Intervista-ritratto a Michael Mann, regista dell’atteso “Ferrari”, in sala dal 14 dicembre, sul grande visionario dell’automobilismo

Il “mago di Maranello”, il “Drake”, il “Grande Vecchio”. In un nome: Enzo Ferrari. Il visionario, cresciuto guardando alle imprese di Tazio Nuvolari, che ha dato modo di guardare il mondo dell’automobile da un punto di vista diverso, quasi come fosse una conquista di libertà, torna a vivere sullo schermo nel film a lui dedicato, Ferrari, prodotto da STX Entertainment, in esclusiva con Leone Group e Rai Cinema, in sala dal 14 dicembre (distribuito da 01 Distribution, ndr). Una pellicola-evento, presentata in concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, con protagonista Adam Driver, diretta da Michael Mann, e che intervistiamo per l’occasione, nella cornice dell’Hotel Cipriani. Il motivo riguarda una sfida tra le più affascinanti messe in atto dietro la macchina da presa, in termini di sforzo produttivo, ricostruzione storica, di ricerca nei dettagli, nei suoni originali e ricreati ad hoc, nella fotografia e luce, influenzata anche dalla pittura di Caravaggio.

Questo è un sogno che ho coltivato da oltre 20 anni“, dice, che inizia prendendo ispirazione dal libro scritto dal giornalista americano Brock Yates, Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine, e girato ora nei luoghi originali come Modena e Largo Garibaldi. L’ambientazione è il 1957: un momento specifico, particolare, dove tutto si concentra. In quel frangente vediamo Ferrari, l’uomo, convivere col lutto per la morte del figlio Dino, avvenuta un anno prima, essere in crisi con la moglie Laura (interpretata da Penélope Cruz), ma nello stesso momento vivere la relazione extraconiugale con Lina Lardi, che lo fa diventare padre per la seconda volta. Ma “Ferrari“, racconta Mann, “era anche un imprenditore illuminato che si dedicava soprattutto al lavoro, affrontava la rivalità con Maserati, e doveva vendere, diceva, per poter correre“. Per farlo mette nel mirino le corse più importanti, la 24 ore di Le Mans, la Mille Miglia, rischiando e portando al limite (e nel mito) il suo nome, insieme a quei piloti di allora, quali Piero Taruffi (interpretato da Patrick Dempsey), Alfonso De Portago, Peter Collins, Olivier Gendebien. Un personaggio, dunque, ambivalente, dedito al controllo, indomito, ma che alla base aveva la passione, il desiderio di affermarsi, una devozione, quasi religione, al sacrificio.

«Tutti confidiamo nel futuro, ma Ferrari c’ha creduto più di tutti», svela Mann.

Che storia è quella di Ferrari?

Atipica, eppure umana, profonda, in cui collidono tanti elementi, l’amore, l’ambizione, la perdita, l’aspetto tragico, melodrammatico, ma anche trascendentale, di assoluta euforia ed eccitazione agonistica. Tutto viene compresso nella sua esistenza. Sono sempre stato innamorato riguardo a cosa c’era dietro a quella figura, la sua asimmetria nei confronti del mondo e di ciò che lo circondava. Mi attraevano le sue contraddizioni, i conflitti, i drammi, gli aspetti famigliari. Ha costruito la più grande azienda di auto da corsa del pianeta, ma non andava a vedere le gare. Gli chiedevano, qual è la tua macchina preferita? Lui rispondeva: la prossima. Non si perdonava talvolta il successo, diceva “se vinci verrai attaccato”. In questo caso, più entriamo nelle profondità dell’uomo, più universale diventa il messaggio del film.

A proposito di auto, si ricorda la prima che ha comprato?

Come non potrei. Una Chevrolet del 1957. Per due anni ha girato come un taxi nelle vie di Chicago, la città dove sono nato, percorrendo 200.000 miglia, sapevo che sarebbe potuta arrivare tranquillamente a 400. Un giorno decisi di farla verniciare di color blu, ed alla fine fu davvero mia.

Michael Mann e il (suo) coraggio di osare

Mann, con Ferrari, torna a occuparsi di leggende, lo fece già in Alì dove narrava della leggenda di Muhammad Ali, narrato fino al famoso “The Rumble in The Jungle” contro George Foreman a Kinshasa. Un autore, sceneggiatore, tra i più riconosciuti e audaci a Hollywood, capace, inventando la serie di Miami Vice, uno degli emblemi degli anni ‘80 televisivi, dirigendo alcuni episodi di Starsky&Hutch, di arrivare poi ad importanti vette cinematografiche: da Manhunter – Frammenti di un omicidio a Heat – La sfida, ha realizzato titoli come L’ultimo dei Mohicani, Insider – Dietro la verità, Collateral, Nemico pubblico, intento, oggi, a 80 anni compiuti, a intercettare periodicamente una svolta, una trasformazione antropologica, uno scontro epocale, un realismo radicale, una verità stratificata, l’epica e la natura dell’uomo. Mann è sfuggito alle etichette, è stato in grado di segnare alcune svolte innovative.

Lo ha fatto ridisegnando un certo tipo di estetica, di design, di stile grafico, di idea di spettacolo visivo, di cinema d’azione, integrando tutta questa ricerca, lavoro meticoloso, nell’immagine stessa, che grazie a lui si è evoluta, ha guardato il futuro. È rimasto al passo con l’evoluzione tecnologica, senza che essa però prendesse il sopravvento riguardo la sostanza dei suoi racconti. Ha mixato, questa è una delle qualità più apprezzate, quel gioco virtuoso, in superficie, nel patinato, riuscendo a costruire un immaginario di colori e suoni, di musiche elettroniche e colonne sonore all’avanguardia (vedi il gruppo dei Tangerine Dream, chiamati a comporre nel suo debutto da regista, Strade violente), entrando, parallelamente, nella profondità frenetica e pulsante dei suoi protagonisti. Sono vittime e carnefici, guardie e ladri, serial killer (come Hannibal Lecktor) e uomini comuni, criminali (come John Dillinger) e onesti cittadini, anime tormentate, visti non così all’opposto, ma accomunate semmai dai propri demoni e dubbi morali, travolte dal desiderio di rimanere rilevanti o farla franca, non importa in che modo. Grazie a Mann, poi, abbiamo visto mettersi alla prova da prospettive inusuali, attori del calibro di De Niro, Pacino, Daniel Day-Lewis, Johnny Depp, Tom Cruise, Jamie Foxx, Russell Crowe, Will Smith, Brian Cox, Colin Farrell, ognuno portato a cercare qualcosa di moderno nel proprio approccio alla recitazione.

Cosa significa dirigere?

La vedo come una grande avventura, è trovare ogni volta quella cosa nuova ed eccitante che deve derivare dalla storia che cerco di raccontare. Ma ciò che mi interessa è mettere in scena qualcosa che possa uscire dallo schermo, che sappia portarti da un’altra parte. Ferrari lo era. Adoro girare, ma fare cinema è sempre una lotta, ed è difficile realizzare ciò che vuoi. L’ho imparato sulla mia pelle, sbagliando talvolta, commettendo errori, cercando però di mantenere la mia libertà e indipendenza, senza interferenze. Non sono un regista-operaio che può passare da un prodotto all’altro.

C’è una frase-mantra che in fondo la rappresenta maggiormente?

Agire, per me, significa reagire: questo è l’approccio che porto avanti. John Ford diceva, “farò due film, uno per loro, si riferiva allo Studio, e uno per me”. Ecco io non ho mai seguito questa scuola di pensiero.