Ebony and Irony:  American fiction, stereotipi e paradossi nella cultura afroamericana

Ebony and Irony: American fiction, stereotipi e paradossi nella cultura afroamericana

di Roberta Valent

I cliché sugli afroamericani, l’ipocrisia di una cultura che non va oltre sono gli ingredienti di American Fiction. Ne parliamo con Jeffrey Wright, protagonista in odore di Oscar

Thelonious “Monk” Ellison», spiega Jeffrey Wright (appena visto in Asteroid City) a proposito del personaggio che interpreta in American Fiction, «è un professore di letteratura inglese che scrive di cose esoteriche, di mitologia greca in relazione alla comunità nera; non gli interessa scrivere storie che abbiano a che fare con il colore della sua pelle, benché il suo agente continui a chiedergli un libro con le componenti essenziali dell’essere black». La svolta nel film, candidato a cinque Oscar, avviene quando l’incontro con Sintara Golden (Issa Rae), best seller con libri facili, dai toni street, spinge il frustrato Monk a scrivere My Pafology, una summa degli stereotipi sulla vita di un afroamericano, dal padre buono a nulla, agli abusi, la droga, il carcere, la violenza. Qui cominciano i paradossi: «Sperando di svelare l’ipocrisia del mondo dell’editoria su come gli autori neri siano relegati a trattare soggetti stereotipati, il romanzo», dice Wright, «diventa invece il fenomeno dell’anno, il libro di maggior successo che Monk, sotto lo pseudonimo di Stagg R. Leigh, abbia mai scritto». L’assonanza con Stagger Lee, celebre can- zone sul linciaggio di un afroamericano, è chiara. Ma c’è altro: «Benché il libro condensi tutto ciò che odia, Ellison decide di prestarsi al gioco. C’è una tremenda ironia nel fatto che il volume piaccia proprio per il motivo per cui Monk lo ha scritto. Tutti sono interessati alla questione razziale, non al libro in sé. È una pa-rodia nella parodia».


Nonostante Erasure, il romanzo di Percival Everett su cui il film è basato, risalga al 2001, l’argomento è quanto mai d’attualità. «Gli stereotipi razziali in America sono impossibili da sradicare completamente. Toni Morrison ha parlato del razzismo come di un mezzo di “distrazione”, un modo per far sì che gli emar- ginati spieghino in continuazione la loro ragione d’essere». Chiedo a Wright cosa ha apprezzato di più del libro riportandolo nel film: «Direi la capacità dell’autore di comunicare il linguaggio razziale e di creare dialoghi intelligenti. Il problema è che le aspettative per i creativi neri sono tali che, se vogliono scrivere qualcosa di “importante e prestigioso”, l’arco degli argomenti che si possono trattare è molto limitato». Insomma, rimaniamo nei dintorni della capanna dello zio Tom: «Finiamo sempre per scrivere di schiavitù, razzismo, discriminazione, povertà nei centri urbani, violazioni dei diritti civili, violenza, e spaccio di droga». Everett nel libro si chiede: “Perché tutto ciò che non assomiglia a questo tipo di storie non è considerato un soggetto abbastanza nero?” È su queste domande che Wright e il regista Cord Jefferson hanno discusso in pre-produzione. Dice l’attore: «Volevamo essere certi che American Fiction non finisse in farsa sotto il peso della satira. Il film parla della vita che, sia dei bianchi o dei neri, non è né commedia né tragedia, ma spesso entrambe. La paura ha un ruolo importante nella nostra incapacità di avere dialoghi costruttivi su razza, identità e cultura. Per questo continuiamo a commettere gli stessi errori». Per ora, comunque, nessun happy end visto che un libro di 20 anni fa, è ancora tanto attuale.