Heroes di David Bowie festeggia 45 anni

Heroes di David Bowie festeggia 45 anni

di Valentina Giampieri

Il 14 ottobre 1977 esce il secondo capitolo della “trilogia di Berlino”, un album in cui Bowie mette da parte l’immagine e guarda più alla sostanza

Heroes di David Bowie arriva nove mesi esatti dopo Low, il primo disco della trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger), quella che vede Brian Eno nella veste di architetto. Sulle vendite di Low nessuno scommette, anzi, la RCA, temendo il disastro commerciale, per qualche mese si rifiuta proprio di pubblicarlo. Dovrà ricredersi però: Low arriva in seconda posizione nella classifica UK e undicesima in quella americana.

L’entusiasmo della critica è invece più prevedibile. «In genere Low è visto come disco sperimentale per veri intenditori, del quale Heroes sarebbe una versione più accessibile, per di più contenente un successo planetario (…non sia mai). Divertito, Bowie fece notare come “il livello di cupezza della seconda facciata è quasi insostenibile per molti ascoltatori che invece non restano turbati da Low”», si legge in David Bowie. Blackstar: Le storie dietro le canzoni.

Va detto che tra i berlinesi, Heroes è l’album più autentico: l’unico che è stato davvero pensato, scritto e registrato nella capitale tedesca. Eno, oltre a dirigere le danze, sta alla tastiera, mentre alla chitarra c’è Robert Fripp (King Crimson).

La copertina


La foto di copertina l’ha scattata il fotografo giapponese Masayoshi Sukita, prendendo spunto da un dipinto dell’artista tedesco Erich Heckel, Roquairol. Lo stesso dipinto lo aveva ispirato anche per The Idiot di Iggy Pop, pubblicato a marzo dello stesso anno.

Lo scatto fa parte di una sessione informale di foto con Sukita in Giappone, che inizialmente non aveva nulla a che fare con la pubblicazione di Heroes. Lo stesso Bowie poi decide di usarla per la copertina. «In passato avevamo fatto un servizio con abiti stravaganti e colorati. Quella volta invece ho chiesto alla stilista Yacco Takahashi di portare semplicemente dei giubbotti di pelle», ha raccontato Masayoshi Sukita al sito Velvet Goldmine, «Bowie indossava dei pantaloni da casa e quando l’ho visto ho capito che per lui il vestito non era più così importante».

Il set dura appena un’ora, ma Sukita lo ricorda come molto intenso: «C’erano tantissime cose che volevo catturare e lui aveva molto da dimostrare. Più che una sessione fotografica è stata una specie di lotta tra noi due, la definirei una performance a tutti gli effetti».

Joe The Lion e la crocifissione

«I primi 30 secondi di Joe The Lion sono un proclama chitarristico senza compromessi, l’espressione di quello che nel 1977 David Bowie intende per rock’n’roll. La vetusta sala berlinese suona come un garage o una cantina in cui tutti cercano di disturbare i vicini con riff e colpi secchi. La voce di Bowie arriva dopo, come un complemento», sempre da David Bowie. Blackstar: Le storie dietro le canzoni.

Per quanto riguarda il testo invece, lui stesso aveva raccontato ad Uncut che – come per altri brani del disco – era nato proprio mentre lo cantava: «Mettevo le cuffie, andavo al microfono, giocavo con qualche parola chiave che mi veniva in mente, registravo. Era una modalità che avevo fatto mia lavorando con Iggy, un modo molto efficace di sconfiggere la normalità nei testi».
E in Joe The Lion cita la performance Trans-Fixed del 1974, in cui l’artista statunitense Chris Burden si era sdraiato a pancia in su sopra un Maggiolino Volkswagen e si era letteralmente fatto crocifiggere con dei chiodi piantati in entrambe le mani.

‘Heroes’ e un bacio proibito

Ad oggi la canzone di Bowie più ascoltata su Spotify, è ispirata alla storia di una coppia che si incontra ogni giorno sotto una delle torri di guardia del Muro di Berlino. «All’epoca non potevo dirlo, ma si trattava di Tony Visconti e della sua ragazza», ha poi rivelato Bowie. Il (suo) produttore aveva una relazione con la corista Antonia Maass, si vedevano di nascosto e si baciavano proprio vicino al Muro.

Della musica, lo stesso Bowie ha detto «Quel tempo e quel ritmo così lenti vengono da I’m Waiting For The Man dei Velvet Underground e le sequenze di accordi sono… quel che sono». Brian Eno invece ne parla così: «È una canzone bellissima, ma allo stesso tempo incredibilmente malinconica. Possiamo essere eroi, ma in realtà sappiamo che manca qualcosa, che è andato perduto». E in qualche modo spiega anche il senso delle virgolette, che sono state inserite di proposito nel titolo per conferire un tono più “leggero” a questi eroi.

V‐2 Schneider e i Kraftwerk

Dobbiamo V‐2 Schneider a un errore fortunato, Bowie lo ha raccontato poco dopo l’uscita dell’album; «Il riff è nato per caso: avevo iniziato a suonare il sax sulla battuta sbagliata. A metà ho pensato: “Sto andando al contrario!”, ma abbiamo continuato. Così è nata una intro in cui tutto era sbagliato – che bello! Impossibile scrivere una cosa del genere. Ho costruito tutto intorno a quello».

Il titolo è un omaggio a Florian Schneider, cofondatore della band tedesca Kraftwerk. Bowie lo aveva conosciuto personalmente e riconosciuto come artista significativo all’epoca. V-2 era il suo soprannome. Per quanto riguarda la musica invece sapeva di muoversi in un territorio un po’ diverso: «Noi improvvisavamo, creavamo in studio. In sostanza, eravamo su poli opposti. Noi avevamo una band R&B. Il suono percussivo dei Kraftwerk doveva sembrare quello delle macchine, un tempo rigido, senza variazioni, su cui mettere suoni generati sinteticamente. Il nostro invece era un suono mobile, creato in modalità “umana”».

Moss Garden e il passare lento del tempo

Secondo il fotografo Masayoshi Sukita, Moss Garden nasce da una visita di Bowie al tempio buddista Zen Saihō-ji di Kyoto: «Il saihō (“muschio”), proprio come l’erba, impiega molto tempo a crescere. Credo che David avesse percepito, nel giardino e più in generale nella cultura orientale, questo trascorrere di un tempo lungo e abbia provato ad esprimerlo con la canzone. In apertura e in chiusura si sente il rombo di un jet, che nel mio pensiero ha sempre simboleggiato il suo ritorno al presente, dopo un lento viaggio a ritroso».

Lo strumento a corde che si sente in Moss Garden è il koto, strumento nazionale giapponese che appartiene alla famiglia della cetra. Ha una cassa armonica lunghissima (due metri circa) e viene paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Inizialmente il koto veniva usato soltanto alla corte imperiale, ma poi venne portato tra la gente comune. Bowie lo aveva acquistato qualche anno prima, durante il tour in Estremo Oriente e lo suona personalmente nel brano.

«Stavo giocherellando con una sequenza di accordi sul sintetizzatore e, mentre suonavo, dissi a David “Dacci una voce quando ti sembra lungo abbastanza”», ricorda Brian Eno, «A un certo punto lui guardò l’orologio e disse “Bene, ora può bastare”. Il brano finì in quel punto, proprio come lo si sente sul disco».