The Witness, Climate Change

The Witness, Climate Change

di Natascha Lusenti

Un occhio all’ambiente: il cambiamento climatico visto dall’obiettivo (in)discreto del leggendario fotografo Max Vadukul

«Se avessi voluto mettere in imbarazzo qualcuno, avrei scattato a colori, invece ho usato il bianco e nero perché il bianco e nero perdona». E ne abbiamo tutti bisogno. Max Vadukul, fotografo leggendario che ha legato il suo nome ai ritratti delle star, alle copertine delle riviste di moda, alle campagne pubblicitarie dei marchi più famosi, quattro anni fa ha accettato una proposta del mensile maschile GQ India per un reportage sul cambiamento climatico, oggi esposto alla Fondazione Sozzani in corso Como 10 a Milano: The Witness, Climate Change, fino all’8 gennaio 2023. Venti fotografie in grande formato e in ognuna si libra nell’aria, più o meno impestata, una sfera che ficca il naso ovunque: su una discarica – «70 metri in altezza di spazzatura, a camminarci su sentivo vacillare tutto intorno a me» – o tra la folla che scende da un treno – «è stato il primo scatto del progetto, quando l’ho visto ho urlato di gioia e ho chiamato l’editor, doveva vederlo subito, gli sono venute le lacrime agli occhi» – o su una strada di una città affollata da mezzi di trasporto.


E proprio in quella fotografia – «la mia preferita» – un ragazzino ha le braccia e gli occhi alzati verso la sfera simbolo della bellezza e del mondo intatto, un globo dalla superficie lucida, argentata – «tenerla pulita è stato il lavoro più difficile». È fatta di Mylar, poliestere. Quindi, parte del problema. Una sfera di plastica testimone di come abbiamo ridotto la Terra a furia di plastica. «Sì, ma se l’avessi fatta fare di acciaio sarebbe stata pesantissima e non sarei riuscito a portarla in giro».


Come si diceva, nessuno è innocente. E quel ragazzino della foto preferita sembra saperlo: la sfera a cui guarda con riverenza è il dio del Vecchio Testamento che è parecchio arrabbiato. «Ci ha dato la vita e il resto e guarda cosa ne abbiamo fatto». Tutti, nessuno escluso, neanche i più giovani – «Parlano di come abbiamo ridotto il pianeta ma vai a vedere cosa c’è nelle loro camere» – neanche i ricchi che guidano macchine elettriche – «Qual è il costo delle terre rare necessarie a fabbricare le batterie di quelle auto? Bambini che scavano nelle miniere del Congo».


Dal Ministero indiano della cultura si è comunicato a Vadukul che il progetto continua. E lui che temeva di deluderli. Di origine indiana, con questo lavoro ha scoperto che «loro sono fieri di me, un uomo dalla pelle color marrone che ce l’ha fatta in un ambiente di bianchi. Non potevo fallire». Anzi, vorrebbe portare la sua sfera in quattro continenti: Asia, Africa, Europa e America, e far diventare il progetto qualcosa di simile alla mostra Family of Man a cura di Edward Steichen, fotografo e direttore del Dipartimento di fotografia del Moma di New York. Inaugurata nel 1955, finì per mettere insieme 503 fotografie e 273 artisti di 68 Paesi. Nata come manifesto pacifista, è un pezzo di storia della fotografia. In bianco e nero. Perché per certi scatti scegliere il colore sarebbe come «dare a Keith Richards la chitarra sbagliata».

Photo by Max Vadukul