Torniamo alla natura, parola di Leonardo Caffo

Torniamo alla natura, parola di Leonardo Caffo

di Elena Bordignon

“Rispettare l’ambiente, così come fare la raccolta differenziata sono azioni che hanno lo stesso valore di meditare o essere vegani. Sono pratiche della postura che dobbiamo avere nei confronti del mondo”

Filosofo, scrittore, insegnante, curatore: è arduo definire in poche parole Leonardo Caffo, giovane pensatore catanese, classe 1988. Laureato in filosofia a Milano, in pochi anni si è distinto per idee non solo originali, ma anche provocatorie.
Prolifico come scrittore – basti citare, tra i suoi ultimi libri, ‘Essere Giovani. Racconto filosofico sul significato della adolescenza” (Ponte alle Grazie), “Fragile Umanità. Il postumano contemporaneo” (Einaudi),Vegan. Un manifesto filosofico” (Einaudi) – Caffo è attivo su più fronti: oltre a scrivere libri, insegna, collabora a progetti artistici e di ricerca, cura mostre, collabora con studi di architettura e non sembra scomporsi nel passare da un ambito culturale all’altro, superando continuamente i confini interdisciplinari. Nell’intervista che segue gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo punto di vista sulla società contemporanea, sulle contraddizioni e idiosincrasie che la contraddistinguono.

In una recente intervista hai dichiarato: “Amo il mare, spero di andare a vivere in una capanna siciliana al più presto possibile.” Vorrei che mi raccontassi quale società ti augureresti di vedere nel futuro.

Una speranza possibile, dopo la fase estrema dell’epidemia, il lockdown, è che si iniziasse a ragionare non tanto sulle mascherine, i vaccini, il distanziamento, ma sulle cause che hanno portato a questa aberrazione. E’ come mettersi a ragionare sui marchingegni elettronici per assorbire la CO2, senza pensare, invece, a fermare ciò che la produce. La cura del se, il coltivarsi, lo stare in pace con se stessi, in contatto con la propria architettura, i propri oggetti, il proprio cibo: è una dimensione ‘retorica’ che nella vita reale non viene minimamente considerata.
In merito alla volontà di fuga che ho espresso, riflettevo sul fatto che la pandemia ha incentivato la fuga dai grandi centri urbani per rifugiarsi in luoghi desolati. Questo fa pensare che le grandi metropoli, alla fine, non sono così ospitali e confortevoli per vivere. Molti sono emigrati al sud, nelle isole, insomma in luoghi che permettono un ripensamento dell’ideale di vita: la lentezza anziché la velocità, l’apertura invece della congestione, la gestione del tempo invece che l’ammasso di cose. Luoghi in cui il passato diventa molto più contemporaneo del futuro.

Ecologia, sostenibilità, riciclo: sono belle parole con cui aziende, associazioni e noi cittadini, abbiamo fatto nostre. Nel nostro piccolo compiamo gesti che ci lascino con la coscienza pulita, però gli effetti dell’inquinamento sono evidenti nei mutamenti climatici. Qual è la tua sensazione sui tempi in cui viviamo?

Le azioni individuali sono una pratica zen, non hanno un effetto politico. Rispettare l’ambiente, così come fare la raccolta differenziata sono azioni che hanno lo stesso valore di meditare o essere vegani.  Sono pratiche della postura che dobbiamo avere nei confronti del mondo. Il ‘green’ è una retorica aziendale:  non ha niente di efficace a mio parere. Spesso è un modo per fare progetti, prendere fondi; nessuna azienda modifica la propria produzione per abbassare la diffusione del CO2. La maggior parte delle azioni green sono atti simbolici. Senza contare che al pianeta, non interessa il genere umano, sta benissimo senza di noi, anzi. Quello che è in gioco è la nostra sopravvivenza, non quella del pianeta; l’ecologia è sbagliato come termine, sarebbe più appropriato parlare di “umanologia”.

Non credo che la soluzione sia integrare la progettazione progressista ad una blanda ecologia, come ad esempio la costruzione di grattacieli però riscaldati con l’impianto geotermico. La vera soluzione è quella di pensare ad una progressiva riforma culturale delle nuove generazioni – ma rapida – dove si cambiano e si propongono nuovi obiettivi.

Hai collaborato a un progetto ambizioso presentato al Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia: la Villa Postumana. Mi racconti come è nato questo progetto e le idee filosofiche che incarna?

Insieme a Paolo Cresci, uno dei progettisti di Arup Italia e Mario Coppola, architetto e professore di progettazione architettonica all’Università di Napoli – e altre persona che avevano dei ruoli marginali – abbiamo concepito che cosa potesse significare immaginare la Villa Savoye di Le Corbusier al contrario: non è più l’architettura a emergere dalla natura bensì l’architettura è una conseguenza della natura.

Il progetto è maturato da una riflessione: l’unica speranza che abbiamo è continuare a dare delle visioni di mondo, progettare, creare – che è la nostra natura – ma provare a farlo in accordo a principi che siano davvero contemporanei; contemporanei nel senso strutturale cioè che metta in discussione il mondo in cui viviamo. Per farlo, appunto, dobbiamo pensare non ad una natura che diventa parte dell’architettura, ma bensì puntare sull’impossibilità di distinguere l’architettura dalla natura. Far scomparire la frattura tra cultura e natura.


Villa Postumana – Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia 2021

Auspichi un cambiamento radicale nel nostro modo di vivere. Quali pensi siano le ‘leve’ che ci porteranno a cambiare il nostro modo di essere?

Se non siamo cambiati dopo l’esperienza del Covid, penso che non cambieremo mai. Stiamo stati più di quattro mesi chiusi in casa a scrivere poesie, a dire che quando tutto è finito saremo cambianti, migliori. Poi, dopo l’apertura, non vedevamo l’ora di fare tutto ciò che facevamo prima, ma molto più velocemente.

Il capitalismo non è un’economia, come erroneamente lo pensiamo, ma è una forma di spiritualità. Non possiamo sostituirla facilmente con qualcos’altro. Noi siamo sostanzialmente uomini acquirenti. Dobbiamo riempire il vuoto con la casa al mare, il telefonino, la piscina, i social.. perchè il capitalismo ha investito su una spiritualità: su un riempimento di un vuoto. L’unico modo che abbiamo, come soluzione, è investire su un’altra forma di spiritualità.

A settembre curo una mostra per uno studio di design – Joe Velluto, Padova Design in pratica – sul duplice sentiero buddista e il design. Partiamo dall’assunto che dovremmo avere una forma di spiritualità nei confronti degli oggetti. Se cominciassimo a fare come si faceva un tempo, cioè che ogni oggetto è spirito, ogni oggetto ha una storia, questa cosa ci potrebbe salvare.  La direzione che ha preso l’economia è invece, la produzione continua di oggetti con una transitorietà sempre più rapida. Possibile che non si sia fatta ancora una legge, a livello Europeo, contro l’obsolescenza programmata? Questa è una cosa incredibile.