Vent’anni senza Vittorio Gassman
Foto: Luciano Viti/Getty Image

Vent’anni senza Vittorio Gassman

di Andrea Giordano

Il 29 giugno 2000 se ne andava Vittorio Gassman, uno degli attori più importanti del nostro panorama culturale. Teatro, radio, tv, musica, e soprattutto oltre cento film (da “La Grande Guerra” a “Il sorpasso”, passando per “L’Armata Brancaleone” e “Profumo di Donna”) che oggi raccontano un artista assoluto, e unico nel suo genere.

La perfezione dell’attore solitario, che fino all’ultimo non ha smesso di recitare, ma che nella sua vita non lo fece mai. A vent’anni esatti dalla morte del grande Vittorio Gassman, prosegue la sua incessante, unica, lezione di stile e carisma, facendo rimpiangere dannatamente un artista di immensa bellezza scenica.

Già, perché lui, il Mattatore (da uno dei suoi film-simbolo) è riuscito a ipnotizzare sul palcoscenico, tra mille volti, – in primis un Otello sublime – riuscendo a diventare forse il vero alterego teatrale, malinconico, pieno di struggimento, con qualche rimpianto, “domo” solo al suo destino ineluttabile. E in quel calderone di invenzioni, geniali performance e letture d’antologia si è confrontato subito, e fino alla fine, con scrittori e poeti immensi, Flaiano, Pasolini, Shakespeare (Amleto), Arthur Miller, Seneca, Cocteau, Dumas, Eschilo, rivisitando, attraverso il proprio sguardo di impavido condottiero, pure Moby Dick di Melville, di cui scrisse un libro tutto da recuperare, Ulisse e la balena bianca. Diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, in realtà la laurea vera l’ha gradualmente presa sul campo, e così l’onore delle armi, degli amici, nemici (pochissimi, e invidiosi), che in lui hanno visto, comunque, sempre, il faro a cui tendere e nel quale ritrovare riparo sicuro.

Per lui parlano le interpretazioni mirabolanti, ben 120, drammatiche, comiche, quelle che dal piccolo al grande schermo hanno segnato oltre sessant’anni d’Italia, il Dopoguerra, la crisi economica, la rinascita e il confronto sociale. Si è sempre proclamato bugiardo, inseguendo, però, la verità dei personaggi, ognuno diverso, ognuno dissonante dal precedente, eppure tutti legati visceralmente da una forma di modernità.

Balzando tra una tappa e l’altra, le collaborazioni cruciali le ha avute soprattutto con Mario Monicelli, Dino Risi (sedici pellicole insieme) ed Ettore Scola. Grazie a loro è entrato nell’immaginario collettivo. Come con Giovanni Busacca, l’eroe (insieme a Sordi) de La Grande Guerra (il ‘primo film umano’, dirà ritirando il Leone d’Oro alla carriera a Venezia), che nel finale, irriso dall’ufficiale austriaco, ‘fegato? questi conoscono solo quello alla veneziana con le cipolle‘, gli risponde, sacrificandosi senza paura, “mi te dìsi propi un bel nient: fàcia de merda!”. Come Peppe er Pantera, boxeur un po’ suonato de I soliti Ignoti, o Brancaleone da Norcia, superbo capo di un’Armata di pittoreschi debosciati, inviati (anche) alle Crociate, o come poderoso e amaro Fausto Consolo, il capitano cieco di Profumo di Donna (premio a Cannes come miglior attore nel 1975), che ispirerà anni dopo un’altra stella di primo piano, Al Pacino, nel remake omonimo, lì baciato dall’Oscar.

Stravolgendo nel titolo l’ottimo documentario di Giacomo Scarchilli – Vittorio racconta Gassman – fu capace di diventare qualsiasi cosa: un giovane pescatore (Preludio d’amore), Daniele Cortis per Mario Soldati, tratto dall’omonimo romanzo di Fogazzaro, un ebreo errante, Giacomo Casanova (Il cavaliere misterioso), quel Walter Granata, pregiudicato malandrino di Riso Amaro di De Santis, eremita travolto dal successo e le donne (ne Il profeta). Oltre la maschera tragica, grottesca, il Mattatore-Gerardo Latini (la pellicola, peraltro, compie 60 anni) non solo è stato abile truffatore, ma ci ha fatto anche divertire, moltiplicandosi, ne I mostri, da pugile a baraccato tifoso della Roma, seducendo nei panni del Principe Anatole Kuragin in Guerra e pace di King Vidor, rivelando spesso le nostre fragilità, la senilità di certi sentimenti, l’utopia di altri.

“La nostra generazione ha fallito”, diceva, al ristorante, agli amici di sempre, ritrovati in C’eravamo tanto amati, altro capolavoro, per poi aggiungere “ll futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti’. Corde crudeli, audaci, difficili da digerire, ma necessarie per crescere. Alla fine lo hanno voluto tutti: Vittorio De Sica (Il giudizio universale e Sette volte donna), Nanni Loy, Alberto Lattuada (Anna e La tempesta), Luigi Comencini, Rossellini (Anima nera), Marco Ferreri, Charles Vidor, Luigi Zampa, Francesco Rosi, Camerini, marcando il terreno altresì in lavori come Il deserto dei Tartari (di Zurlini), La Famiglia, La cena, nel gioiello di Barry Levinson, Sleepers, nei panni strepitosi di un anziano boss ad Hell’s Kitchen, o al volante della sua Lancia Aurealia B24, ne Il Sorpasso, ancora per Risi. Ha giganteggiato in lungo e in largo, tra radio, tv, nella prosa, cantando, incidendo album, singoli, pure nel doppiaggio (è stato la voce di Mufasa ne Il Re Leone) senza perdere di vista le passioni: l’amore per le donne (ne ha avute di bellissime), da Nora Ricci, Shelley Winters, Juliette Maynel, Anna Maria Ferrero, a Diletta D’Andrea, e i figli, Paola, Alessandro, Vittoria, Jacopo.

Ma per fortuna, a vent’anni dalla scomparsa, ci rimane ancora tutto di lui, e un ulteriore lezione da custodire. «Non si recita per guadagnare il pane, si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è, si recitano parti di eroi perché si è vigliacchi, si recitano parti di santi perché si è delle carogne, si recita perché si è dei bugiardi fin dalla nascita, e soprattutto si recita perché si diventerebbe pazzi non recitando.»