Eugenio Boer: “Il lockdown è la più grande rivoluzione gastronomica degli ultimi dieci anni”

Eugenio Boer: “Il lockdown è la più grande rivoluzione gastronomica degli ultimi dieci anni”

di Paolo Briscese

Alla guida del ristorante milanese [bu:r], Eugenio Boer mette in scena una cucina che evoca ricordi e reminescenze. E lo fa impregnando la tradizione italiana di nuove contaminazioni, con sguardo vigile su ciò che accade nel mondo.

Nato ‘per caso’ in Italia da padre olandese e madre italiana, Eugenio Boer, classe 1978, è uno dei nomi tra più interessanti della ristorazione Meneghina. “Nel mio DNA c’è l’Olanda, ma il mio cuore è tutto per l’Italia” racconta lo chef. La sua passione per la cucina nasce da ragazzino, quando a soli 3 anni inizia a mettere le mani in pasta insieme alla nonna materna, cuoca di professione, che si era trasferita nei Paesi Bassi portando con sé la sua impastatrice dell’Imperia. Oggi questo nomade viaggiatore è alla guida del suo ristorante [bu:r], dove in rottura con il passato, propone piatti realizzati interamente con prodotti nostrani, con un’attenzione particolare alla sostenibilità sposando la filosofia dello zero waste. Lo abbiamo incontrato.


Eugenio Boer e Carlotta Perilli

Com’è nata la tua passione per la cucina?
È una passione nata da ragazzino. Ho iniziato a cucinare con mia nonna a 3 anni, mi veniva spontaneo ricreare un gesto che dava felicità a una terza persona, mio padre. Mia nonna e mio padre parlavano una lingua diversa, lui olandese, lei italiana, le difficoltà comunicative venivano sopperite dal far da mangiare, dal cibo, che dava gioia a entrambi. È stato un percorso molto semplice e naturale, per questo mi sono avvicinato così presto alla cucina, che era per me un luogo dove avveniva qualcosa di magico che faceva comunicare le persone.

Che cosa caratterizza la tua cucina?
Il ricordo. Da [bu:r] cerchiamo di stimolare un ricordo che è ancora nella mente. Un ricordo infantile, di amicizia, di famiglia, comunque legato alla tavola, quel luogo in cui quasi sempre ci si riunisce per raccontarsi qualcosa.

Perché proprio la tavola?
Perché è un luogo in cui passi del tempo in modo totalmente diverso rispetto al resto della giornata, è difficile che a tavola non si parli, ci si siede per raccontarsi qualcosa. La cucina italiana in particolare è fatta di mille ricordi e tradizioni, si ricordano sempre le ricette della mamma e della nonna. Proprio da questo è nata la mia filosofia di cucina, dal fatto di giocare con i ricordi. Topinambur e castagne, per esempio, nasce dal ricordo di un momento che decretava l’inizio dell’autunno, la prima volta che si cuocevano le castagne sul focolaio con la padella forata di ferro. L’odore che emanava è proprio quello che ho replicato in questa portata, un odore che mi ricorda esattamente quel periodo dell’anno e che poi si sviluppa in altri mille sapori.

Con quali materie prime preferisci lavorare?
Non sono un classista dal punto di vista delle materie prime. Mi piacciono tutte, e le ritengo tutte molto interessanti. Seleziono gli ingredienti seguendo la loro stagionalità. In questo periodo dell’anno, per esempio, ho voglia di cucinare funghi, selvaggina, e questo desiderio è molto legato al momento che stiamo vivendo.

Come nasce l’ispirazione estetica e creativa di un nuovo piatto?
Il processo creativo non è sempre lo stesso. Spesso a ispirarmi è la fotografia di un luogo. Nell’ultimo menù, per esempio, il risotto di campo è nato dalla fotografia di un alpeggio in piena estate in montagna. Il burro affumicato, il formaggio fresco…mi riportavano a quel preciso panorama.

In cucina ha più importanza la forma o la sostanza?
Entrambe nel giusto equilibrio. Il lato artistico di un piatto è senza dubbio importante, ma la sostanza non può essere mai in secondo piano. Sarò sempre un tradizionalista in questo, ciò che conta per me in assoluto è la centralità del piatto.

Ti ispiri a qualche grande maestro?
Alla mia età non mi ispiro più a nessun grande maestro, io stesso sono il frutto delle mie esperienze. Dai grandi maestri con cui ho avuto l’opportunità di lavorare, ho appreso che questa è la mia strada, quella di non ispirarmi a nessuno. La mia cucina è molto identitaria e personale.

Quale piatto consideri rappresentativo della tua cucina?
Per me lo sono tutti. Un tributo al cervo però, lo devo dare: è un piatto che mi ha accompagnato per questi 10 anni di carriera. E dopo 10 anni, insieme a Carlotta, la mia compagna, abbiamo deciso di renderlo più innovativo e più moderno ragionando sulla sostenibilità, una tematica che ci sta particolarmente a cuore.

Secondo te, c’è una relazione tra arte e cucina?
L’architettura estetica di un piatto richiede sicuramente una componente artistica spiccata. Però, nel nostro mestiere, c’è molto artigianato. Cucinare è un’azione umana che si ripete e che ha una percentuale di errore. Mentre l’arte è il frutto dell’impeto di un attimo, non è né replicabile né vuole essere replicata. Il piatto è frutto di una serie infinita di prove e di ​intenso lavoro il cui il risultato può essere sorprendente.

In cucina, come è possibile innovare la tradizione senza tradirla?
Considerando le mie origini, ho un minimo di distacco da una tradizione che però conosco molto bene. Tutto ciò che ho appreso e continuo ad apprendere guardando la tradizione italiana da italiano la destrutturo reinterpretandola da olandese.

Davanti ai fornelli, si lascia più spazio alla testa o al cuore?
Si tratta sempre di giusto equilibrio. Essendo nata questa passione per una questione sentimentale, sicuramente sono uno che cucina tanto di pancia, con il cuore. Ma sono anche una persona che ragiona molto, ci sono molti pensieri dietro i miei piatti. Pensieri fatti d’incastri, di ricordi, di sensazioni e emozioni vissute.

Che cosa distingue la nostra cucina dalle altre?
La cucina italiana è fortemente legata alla storia popolare, il che la rende fortemente identitaria. Basti pensare alla italo-americana, la prima cucina che è riuscita a integrarsi completamente in un altro Paese.

Per uno chef quanto è importante ottenere la stella Michelin?
La stella Michelin è senza dubbio un riconoscimento importante. Con l’esperienza, però, ti rendi conto che quello che conta davvero è far vivere alle persone che entrano nel tuo ristorante un’esperienza unica e dar loro un motivo per cui ritornare. Se l’impegno che metti nel lavoro è indotto da voler ricevere un premio è sbagliato, se lavori indipendentemente da quel premio, arriverà.

Quali sono le qualità indispensabili per lavorare nella tua brigata?
Entusiasmo e amore reale per quello che si fa. Il resto è tutto secondario.

I tuoi indirizzi preferiti?
La Trattoria Ai Due Platani a Parma, la Trattoria del Gallo a Gaggiano e il ristorante Altrimenti a Milano.

Secondo te, qual è stata la più grande rivoluzione gastronomica degli ultimi dieci anni e quali sono le nuove sfide del futuro?
Il lockdown. Credo che abbia riportato la bussola sulle cose che realmente contano a livello gastronomico. Per il futuro la sfida sarà sicuramente incentrarsi sulla concretezza e sulla sostanza di cui abbiamo già parlato e visto il momento che stiamo vivendo, è importante garantire sempre più la sicurezza agli ospiti che ci vengono a trovare.