Ritratto di Chef: Tommaso Tonioni
Foto: © Stefano Delia

Ritratto di Chef: Tommaso Tonioni

di Paolo Briscese

Ha poco più di trent’anni ed è già alla guida del ristorante stellato Achilli Al Parlamento di Roma. Abbiamo intervistato Tommaso Tonioni, la nuova stella (rock) del fine dining.

Nel cuore le materie prime. Nelle intenzioni l’avanguardia. Nelle orecchie solo punk rock. E nel piatto una cucina concreta, capace di regalare al palato una sconfinata sinfonia di incastri fra antiche tradizioni e nuove traiettorie dell’alta ristorazione. Attitudine da vero rocker, amante della musica con un passato da bassista, Tommaso Tonioni, romano, classe 1989, è un vero e proprio enfant prodige del fine dining capitolino, alla guida del ristorante Achilli Al Parlamento di Roma (1 stella Michelin). Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua rivoluzione dietro ai fornelli, tra etica, tecnica e punk rock.

Com’è nata la tua passione per la cucina?
È nata dalla mia golosità. Se dovessi decidere tra “mangiare” e “cucinare”, sceglierei senza dubbio quest’ultima. Dopo il liceo artistico, dove negli ultimi due anni avevo studiato architettura, mi sono reso conto che sempre più spesso mi ritrovavo in cucina. Mia madre era sempre a lavoro, quindi almeno per un pasto al giorno ero costretto a cucinarmi qualcosa. Sin da piccolo ho sempre messo le mani ai fornelli, era un mondo che mi divertiva e affascinava, cucinavo spesso anche per gli amici. È nata cosi la mia passione per un mondo che è diventato poi il mio mestiere.

Che cosa caratterizza la tua cucina?
Non amo le etichette. La mia cucina è comunque pura, concreta e minimale, e si basa sulla scelta scrupolosa della materia prima. Ho scelto di non avere “cataloghi”, quindi non mi affido ad aziende specializzate ma direttamente ai miei agricoltori e allevatori. Sono io che ricerco la materia prima in base alla mia esigenza.

Con quali materie prime preferisci lavorare?
Non ho preferenze particolari. Il mondo vegetale, essendo meno esplorato rispetto alle proteine animali, è sicuramente una dimensione che mi affascina molto.

Come nasce un nuovo piatto?
Non ci sono regole prestabilite. Un piatto può nascere in qualsiasi momento della giornata, dopo una lettura storica gastronomica, dopo aver visto una forma geometrica in una mostra d’arte o dopo aver mangiato un vegetale fermentato nel mercato di Kyoto. Nasce soprattutto dall’esigenza di dare un valore aggiunto al gusto, rispettando e valorizzando le materie prime utilizzate. 

In cucina ha più importanza la forma o la sostanza?
Entrambe. Lo studio estetico che accompagna la cucina moderna è molto importante, ma non deve richiedere uno sforzo da parte del cuoco, bensì un approccio naturale. Lo chef patinato ha fatto il suo tempo, prima ci chiamavamo “cucinieri”. Siamo gente che cucina non che salva il mondo! È importante tornare a dare un servizio di qualità al cliente, mentre lo chef deve mettersi (almeno per qualche istante) in secondo piano…

I tuoi piatti sono essenziali, concreti, intolleranti ai fronzoli. Ti ispiri a qualche grande maestro?
Non uno in particolare. Ho girato tanto soprattutto all’estero. E questo mi ha dato un approccio non tradizionale. I miei piatti attingono alle numerose esperienze accumulate nel corso degli anni sia dentro che fuori le cucine. E alla storia antica della gastronomia, punto di riferimento irrinunciabile.

Quale piatto consideri rappresentativo della tua cucina?
Il “Raviolo Melitta, infusione di cera d’api e camuciolo”. Il raviolo descrive il mondo delle api e le omaggia attraverso l’utilizzo di tutto quello che esse ci forniscono: la cera, il miele, e il polline fresco. Da qui il mio omaggio alle api. Un piatto che racconta il mediterraneo attraverso uno dei più importanti ingredienti che abbiamo la fortuna di avere a disposizione ancora oggi. Il miele.

Si dice che ci sia una forte relazione tra arte e cucina. Che cosa ne pensi?
Penso di sentirmi più artigiano che artista. Per fare il cuoco non devi essere un genio.

Ti piace molto sperimentare. In cucina, come è possibile innovare la tradizione senza tradirla?
Non sono certo uno monotono. Tradizione vuol dire trasmettere, ed è quello che un cuoco cerca di fare tutti i giorni. Trasmettere senza mai tradire il sapere del passato. Riportare ai giorni di oggi un’antica zuppa romana penso sia un enorme esercizio di ricerca e di rispetto nei confronti della tradizione. E questo è il tipo di approccio che caratterizza la mia cucina, che condensa ricerca e capacità di osare allo stesso tempo.

Davanti ai fornelli, si lascia più spazio alla testa o al cuore?
Si lascia lo spazio solo all’organizzazione. Un piatto deve avere testa, cuore ma soprattutto pancia.

Hai viaggiato il mondo passando da una cucina prestigiosa all’altra. Che cosa distingue la nostra cucina dalle altre?
La nostra cucina non ha nulla da invidiare alle altre. Mangiare italiano è sicuramente differente. Grazie alla grandissima biodiversità che abbiamo nel nostro paese, siamo in grado di rendere unica ogni pietanza. La nostra cultura gastronomica parte dal mondo degli antichi romani ed è un enorme patrimonio che caratterizza tutto quello che l’Italia è stata fino ai nostri giorni.

Per un giovane come te quanto è importante ottenere la stella Michelin?
È senza dubbio un traguardo importante. Ma non dobbiamo scordarci che dobbiamo cucinare quello che veramente ci sentiamo di esprimere, senza seguire per forza un protocollo di regole dettate dal settore.

I tuoi indirizzi preferiti?
Tokuyoshi a Milano, Ikoy a Londra, Den a Tokyo e Relae a Copenaghen.

Secondo te, qual è stata la più grande rivoluzione gastronomica degli ultimi dieci anni e quali sono le nuove sfide del futuro?
Dopo la Francia e la Spagna, sicuramente il “grande nord” ha portato una ventata di aria fresca nella gastronomia mondiale, facendoci riscoprire un po’ quelle che erano e sono ancora oggi le nostre tradizioni. Il ritorno alla natura e lo spazio lasciato ai vegetali è senza dubbio un segno distintivo di questo decennio. Stiamo vivendo un ritorno all’agricoltura e al vero rispetto per gli ingredienti. Le nuove generazioni di giovani chef stanno intraprendendo strade più concrete, legate alla sostanza e a tecniche primitive come il fuoco vivo. La “riscoperta” del garum (salsa di interiora di pesce) è un esempio perfetto per riassumere il senso di questo periodo. Il ritorno alla tradizione con un nuovo modo di vedere e di reinterpretare le cose.