Celeste Dalla Porta
È già stata definita una rivelazione. Lo è. Lei preferisce una cifra diversa, per il momento. Meno frenetica e pochissimo rapida: ascoltare, studiare, imparare (tanto) e costruire
Celeste Dalla Porta (Milano, 1997) viene da un ambiente decisamente stimolante: nipote del fotografo Ugo Mulas, figlia del contrabbassista jazz Paolino Dalla Porta, dopo il liceo artistico a Brera e un diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia è la protagonista del film di Paolo Sorrentino Parthenope (2024).
Quindi non si tratterebbe propriamente di una interprete emergente: siamo già ai firmamenti. Entrare in un cast guidato da uno dei registi più autorevoli non significa solo comparire: significa misurarsi, assumere responsabilità, comportarsi come se si sapesse già fare quello che ancora non esiste. Celeste lo sa; per lei, quel periodo è stato, dice, «lungo. E interessante. È diventata un’esperienza quasi scolastica».

Qualcosa di essenziale, in quella lezione? «Che diventava la questione principale essere lì. Amare così tanto una sceneggiatura, come in quel caso. O avere così chiaro il desiderio che lo volevo fare. Ma non era un desiderio che mi schiacciava, o mi metteva contro me stessa, o mi portava all’arrivismo, se riesco a spiegarmi. Mi ripetevo: “Ho questa grande possibilità. Se poi non va bene, mi accontenterò dell’esperienza di stare vicino a un regista come Sorrentino”».
C’è qualcosa di perfetto e micidiale nei geni. È una incantatrice. Ti fissa, Celeste, e il tempo si smargina. La sua sincerità rivela già molto: non si tratta solo di sperare di riuscire, ma di desiderare il mestiere. Eppure, quando la domanda diventa “Sei un’insicura?”, la risposta è: «Io sì. Tutti gli attori lo sono. E dopo questo film per certi aspetti lo sono di più, per altri meno».

Ha uno sguardo ampio: «Ci sono personaggi che mi hanno regalato qualcosa. Eva Green in The Dreamers. Mi ha toccata. Ha quel suo rimanere così bambina. Che per me alla fine è il compito dell’attore. Mi piace molto Penélope Cruz nei film di Almodóvar. È magnetica. E Almodóvar riesce a tirar fuori un elemento magnetico, viscerale. Solo a lui mi pare riesca con quella cifra».
Sul ruolo in Parthenope: «L’audizione era da sola un corso di recitazione. Ho studiato la parte, ho approcciato il personaggio in molti modi; era molto lungo. Un giorno sembrava che fosse andata disastrosamente, poi mi richiamavano».

È l’epoca dello sfavillio facile, questa, in cui l’esposizione spesso precede la maturità, Celeste è da una parte, già sola, e sembra appartenere a una scuola diversa: quella di chi arriva per capire. Ascolta, studia e costruisce. Non evita l’insicurezza – è usata con intelligenza come materia di lavoro – e difende una qualità sparita: la capacità di restare curiosa, quasi stupita.
È già stata definita una rivelazione. Lo è. Lei preferisce una cifra diversa, per il momento. Meno frenetica e pochissimo rapida: imparare. Imparare tanto. Una frase minima, per niente modesta.