

Dominic Sessa
Rivelazione del film “The Holdovers”, l’attore conquista con una presenza scenica unica. Ed è straordinariamente camaleontico. Viene tutto da dentro: dalla sua spiccata intelligenza al suo innato senso di educazione
Quando Dominic Sessa frequentava l’ultimo anno alla Deerfield Academy, al suo corso di Scrittura creativa non fiction venne assegnato un compito: «Scrivi una storia su un altro studente della classe», mi racconta Sessa, al telefono da Milano. «Qualcuno ha scritto di me che non facevo nulla, che ero molto tranquillo», continua. Ma l’autore rimarcava anche la sua notevole attenzione.
Sessa ha letto quel testo dopo aver girato The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne, dove interpreta Angus Tully, uno studente abbandonato in un istituto che, in qualche modo, potrebbe ricordare la Deerfield Academy. (Alcune scene sono state girate proprio nella scuola.) «E quella descrizione», ha dichiarato Sessa, «mi ha riportato alla mente una cosa che mi ha detto Paul (Giamatti, suo collega in The Holdovers). Un consiglio professionale. “Cerca di risultare interessante da guardare. Se sei interessante alla vista, è già sufficiente”». Sessa può dirsi fortunato: infatti Payne lascia spazio ai suoi attori, valorizzandoli e proteggendoli. Payne permette ai suoi personaggi di pensare, di essere, di osservare con occhio critico. Non c’è finzione. Un altro grande regista, una volta, ha detto: «Non essere prolisso. È una cosa che odio». Payne e i suoi attori non sono mai prolissi.

Dominic Sessa è senz’altro interessante da guardare. Per essere un attore così giovane, con alle spalle solo qualche ruolo teatrale alla Deerfield (ha spaziato da Creonte dell’Antigone, a Lenny di Rumors di Neil Simon), ha una spiccata presenza scenica e – come potete vedere in queste immagini tratte da un servizio fotografico di Bruce Weber in Florida – è straordinariamente camaleontico. Le sue trasformazioni, nelle fotografie e nel film, non richiedono effetti speciali, costumi, trucchi o accessori. Viene tutto da dentro: dalla sua spiccata intelligenza al suo innato senso di educazione. Tant’è che un mio amico, che ha calcato alcuni red carpet con Sessa, mi ha confidato: «Possiamo dire che non è soltanto un attore straordinario. È qualcosa cui davamo molto valore, un tempo: un bravo ragazzo dalle buone maniere».
Guardando Sessa in The Holdovers, mentre viene abbandonato dalla madre, desiderosa di trascorrere più tempo di qualità e momenti romantici col suo nuovo marito, lo si vede degradarsi, risorgere, trasformarsi. Eppure, sia che risulti suscettibile, insopportabile o provocatorio, si percepisce l’ottima impostazione del suo personaggio, così come la capacità interpretativa di Sessa. Ci si identifica in Angus perché tutti noi abbiamo vissuto certe situazioni senza effettivamente farne parte. I tre personaggi principali di The Holdovers sono degli sbandati: alcuni emarginati per via di episodi passati e dei loro comportamenti attuali, altri vittime del tempo e dei suoi effetti.

È facile immedesimarsi e riconoscere le persone che abbiamo amato, confortato, che abbiamo perso. Più difficile, invece, risulta individuare le trasformazioni fisiche di Sessa. Quando lo vediamo – e quando io stesso l’ho visto – per la prima volta, fa subito pensare ad alcuni interessanti individui del passato, quelli che sembravano avvolti nel mistero, ma il cui più grande segreto lo tenevano nascosto a se stessi: non si erano mai resi conto di quanto fossero attraenti, sensuali o affascinanti. Persone che avevano il petrolio in cortile, la cassaforte piena di gioielli, eppure ne erano ignare. Non frequentavano i classici luoghi da ricchi.
Ho osservato Sessa in The Holdovers e vi ho colto fugacemente molti altri interpreti eccellenti. In una recensione del 1972 del film Un marito per Tillie, Pauline Kael commentò che il dolce sorriso di Carol Burnett le ricordava quello di Edna May Oliver, una straordinaria caratterista che all’epoca era stata in gran parte dimenticata. Non sono mai più riuscito a vedere il sorriso di Burnett senza che desiderassi ammirare Edna May Oliver in La più grande avventura (1939). Ormai Oliver e Burnett erano collegate per me. Famiglia, in senso cinematografico.

Talvolta Sessa mi ha fatto pensare con nostalgia a Pierre Clementi, Serge Gainsbourg, Bob Dylan, Grace Slick e, incredibilmente, ad Arletty, l’attrice francese la cui radiosa bellezza viene degnamente esaltata in Amanti perduti (1945), di Marcel Carné. Arletty veniva spesso nominata per descrivere Cher, ed effettivamente, in certi momenti, Sessa ha la bellezza unica di Cher, oltre alla capacità di catturare l’attenzione, di rubare la scena senza mai perdere autenticità e, come suggeriva Giamatti, l’alone di interesse.
Un altro attore cui continuavo a pensare mentre osservavo Sessa era Lenny Baker, che nel 1977 si aggiudicò un Tony Award per il musical I Love My Wife, distinguendosi particolarmente nel ruolo di un geniale tutor di un gruppo di studenti di legge in Esami per la vita (1973) di James Bridges, e in quello di Larry Lapinsky, alter ego di Paul Mazursky, in Stop a Greenwich Village (1976), giovanotto allampanato che da Brooklyn approda a New York per realizzare il sogno di diventare attore. C’è una splendida scena in cui Baker pronuncia un discorso di ringraziamento per l’Oscar su una piattaforma ferroviaria (nell’inquadratura appare anche un poster con un’immagine di Marlon Brando, l’idolo della sua generazione), ma l’attenzione è rivolta a Baker, al suo viso dolce, bello in modo non convenzionale, eppure attraente, interessante, impossibile da dimenticare.
Guardando queste foto di Sessa, potreste ritrovare Sal Mineo e Rodolfo Valentino. Magari può sembrare il ragazzo dai capelli vaporosi in quegli spot per lo shampoo anni 80, oppure quello che sgranocchia popcorn dalla scatola in stile Peter Max, ma è anche un poeta romantico, uno studioso vittoriano intento a scrivere nel cuore della notte, rintanato in mansarda.
Come nasce un “Dominic Sessa”? Com’è stato scoperto? Gran parte del merito – va detto – è della direttrice del casting Susan Shopmaker, che ha cercato nelle scuole tra centinaia di volti, prima di individuare Angus Tully, e a quel punto anche Alexander Payne ha potuto incontrarlo, constatando che aveva ragione.

Benché le esperienze attoriali di Sessa si limitassero a quelle liceali, egli stesso confessa di essere sempre stato un performer. «Esattamente», conferma. «È nella mia natura. Quando praticavo sport, ero quello più energico. Ero molto estroverso in tutto ciò che facevo». Questa sua libertà fisica emerge chiaramente nel suo modo di recitare. Sessa sa come usare la propria fisicità. Il suo corpo non ostacola la recitazione, cosa che spesso accade ai giovani attori, che, sebbene conoscano i loro personaggi, denotano una mancanza di controllo fisico. Sessa me lo spiega in questo modo: «Ho giocato parecchio a hockey. Adoravo pattinare sul ghiaccio. Quando stringi il bastone da hockey ne hai il totale controllo, sai dove si trova il tuo corpo, dove stai andando. Sei nel bel mezzo di una partita, con la gente che ti guarda, ma tu sei completamente assorto nel tuo ruolo. Sei nel flow. Io mi concentravo sul gioco, sull’obiettivo, e riuscivo a dimenticarmi di ciò che mi stava intorno. Durante le riprese di un film, il romanticismo e l’intimità si instaurano solo una volta che ignori tutto ciò che accade sul set». Le luci e la troupe scompaiono. Ci sono solo i personaggi, individui veri e propri. «Alla fine credi – e io non facevo eccezione – a ogni singola battuta pronunciata sul set».
Mentre era ancora al liceo, la classe di Sessa assistette a una rappresentazione di True West di Sam Shepard, con Ethan Hawke e Paul Dano. «È stata una folgorazione. Mi ha dato l’input per inseguire il mio sogno: quello di recitare» (un’altra performance che ha lasciato Sessa di stucco è stata quella di Fiona Shaw in Medea). Come fa Dominic Sessa a sopravvivere? Su di lui grava un alone di interesse, apprezzamento e desiderio; eppure eccolo lì, composto, educato, concentrato. A chi si rivolge quando la pressione si fa eccessiva? «Probabilmente mia sorella è la mia confidente numero uno. Poi c’è mia madre e… beh, tutta la mia famiglia, in realtà. Loro ci sono sempre per me. Oltre alla mia famiglia posso contare su una fitta rete di persone che mi sostengono. Alexander Payne è fantastico, e so che non mi pianterà mai in asso (quando ha ritirato l’Independent Spirit Award per la “Miglior Interpretazione Rivelazione”, Sessa ha definito Payne un amico, ndr). E anche Paul, e Da’Vine Joy Randolph, che mi definisce “old soul” (anima antica). Non sarei così equilibrato se non fossero rimasti al mio fianco durante la realizzazione del film, e anche in seguito».

Alexander Payne ha tenuto un corso approfondito sul cinema del periodo cui The Holdovers strizza l’occhio (i primi anni 60), con particolare enfasi sui film di Hal Ashby, un regista al quale riserva la sua spudorata, quanto meritata, ammirazione. È stato proprio Payne a far conoscere a Sessa Il padrone di casa, Harold e Maude, L’ultima corvé e Shampoo. Nelle sequenze iniziali, The Holdovers si produce in tutti quei graffi e crepitii tipici della cinematografia anni 70, quando un film poteva restare in sala per mesi e mesi, con conseguenti danni sulla pellicola. Patton, generale d’acciaio rimase in programmazione per oltre un anno nel cinema di Baton Rouge, la mia città natale (vi giuro che si chiamava Robert E. Lee Cinema). Una volta che, stufo della visione di Song of Norway, mi intrufolai in sala per guardare qualche pezzo di Patton, trovai effettivamente alcuni salti di suono e di immagine, con tanto di graffi e fruscii.
La musica di apertura di The Holdovers, quelle sonorità jazz e vivaci e i loghi coerenti con l’epoca, mi hanno offerto un viaggio sensoriale, catapultandomi nelle ultime settimane del 1970. Io sono vecchio abbastanza da ricordare quel periodo, ma alcuni spettatori ben più giovani mi hanno confermato di riconoscere luoghi e persone. Il film è ambientato nel 1970, è vero, ma scorre anche nella nostra memoria, nei nostri cuori.
C’è chi critica Payne per presunto plagio di altri film. Così com’è stato attaccato Peter Bogdanovich per aver girato scene che rievocavano John Ford, Howard Hawks, Sam Wood, Alfred Hitchcock e George Cukor. Io non ci vedo alcun tipo di plagio. Non lo ritengo disonesto. The Holdovers è un film che parla di persone alla disperata ricerca di una famiglia, che desiderano farne parte, e vedo l’omaggio di Payne alla cinematografia dei primi anni 70 come un tentativo garbato e affettuoso di inserire la sua opera nello stesso filone. Quand’è che un film, un libro o una canzone possono dirsi originali? Tutto ciò che creiamo, sperimentiamo o affermiamo proviene da un nostro personalissimo repertorio di ricordi e desideri, e un regista tanto sensibile come Alexander Payne può soltanto – forse com’è giusto che sia – offrirci un elenco di ciò che lo ha ispirato nei suoi lavori più recenti.

Guardando The Holdovers si colgono certamente dei richiami a Hal Ashby, ma io sono rimasto positivamente colpito da una scena che mi ha trascinato indietro fino a Love Story (1970) di Arthur Hiller. Un’altra mi ha riportato alla mente Cinque pezzi facili di Bob Rafelson. Anche la mano delicata di Alan J. Pakula è evidente in molte scene e non è mia intenzione accusare il compositore della colonna sonora – Mark Orton – di alcun misfatto, ma le tristi e suggestive note di Come Saturday Morning di Dory Previn e Fred Karlin (scritta per il film Pookie di Pakula) traspaiono chiaramente nel brano Drive to Boston.
Un bravo regista osserva e investe. In una recente intervista Ben Mankiewicz ha chiesto a Payne di citare alcune scene di film che l’hanno commosso e il regista ha menzionato il finale di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, in cui un ragazzino vede il padre picchiato da un gruppo di uomini. Il padre avanza verso il figlio, senza quasi riuscirne a sostenere lo sguardo. Ma il piccolo cammina al suo fianco, allungando la sua manina verso di lui, che la afferra. Famiglia. Accettazione. Conforto. Unità. E anche qui, in The Holdovers, mentre Sessa e Da’Vine Joy Randolph attendono fuori dall’ufficio del preside di conoscere il loro destino, Randolph porge la mano all’amico ansioso e preoccupato. Famiglia. L’accettazione che Angus Tully non ha trovato nella madre e nel patrigno (da notare la fermezza con cui il patrigno annuncia prontamente il suo nome, per disconoscere la paternità di Angus), la ritrova nell’insegnante apparentemente irrecuperabile Paul Hunham e in Mary, la cuoca della scuola, che inizialmente riusciva a cogliere solo i privilegi e il cattivo comportamento del giovane studente. Mary ha perso il figlio ventenne in Vietman e questo è il suo primo Natale senza di lui.

Il suo dolore è palpabile, i sorsi dalla bottiglia che sta etichettando, una necessità. Pur disprezzando alcuni degli studenti della scuola dove lavora (e dove suo figlio si sentiva realizzato), considerandoli ricchi e stupidi (una “combinazione tipica”, afferma sarcasticamente), Mary ritiene che i ragazzi debbano essere trattati con gentilezza. Dovrebbero stare insieme ai loro cari – afferma – sebbene durante le vacanze non riesca neppure ad andare a far visita alla sorella incinta. Mary sente che significherebbe abbandonare suo figlio, dato che la scuola è stato l’ultimo posto in cui ha trascorso del tempo significativo con il suo “bambino”.
Tuttavia, in seguito accetta – anzi, chiede – di andare a Roxbury con il professor Hunham e Angus per trovare la sorella, ed eccole lì, in piena sintonia di abbigliamento e comportamento, la gioia dilagante di essere insieme. A un certo punto il cognato sbircia dentro la futura stanza del bambino e vede le due donne che si completano reciprocamente le frasi; sono ora ridanciane, ora addolorate, e non ha neppure il coraggio di proferire parola, di interromperle, di annunciare la propria presenza. È un legame che non può essere spezzato. Famiglia.
Sfido chiunque abbia un cuore a non commuoversi quando Mary, con garbo e dolcezza, ripone il corredo da neonato di suo figlio nel cassetto in attesa del bambino che la sorella porta in grembo. O quando Mary ha una crisi di pianto a una festa di Natale. O quando accarezza delicatamente l’uniforme militare del figlio. Mary ci prova, cerca di reagire. Così come Angus, che a una festa organizzata da una segretaria della scuola (interpretata meravigliosamente da Carrie Preston) avverte un legame famigliare e un’affinità amorosa. Angus si sente a suo agio tra queste persone, anche se sottrarrà una palla di vetro a tema natalizio per donarla al padre, ricoverato in un “istituto” (come veniva chiamato all’epoca). È un furto “sentimentale”, una sorta di “tenera” ruberia (ben diversa dal furto, motivato e perpetrato con rabbia da Hunham, che chiude degnamente il film).

Il film ha riscontrato un grande favore di pubblico, in gran parte grazie all’interpretazione di Dominic Sessa. Impossibile non comprenderlo e non amarlo, pur riconoscendone i difetti. Angus possiede una bontà innata, che si evidenzia in maniera emblematica quando conforta e protegge un compagno più giovane, che ha bagnato il letto e piange perché sente la mancanza della famiglia. Questa scena è così dolce, perfetta, fino alla conclusione, con una battuta sugli effetti degli asparagi sull’urina. Il dialogo è spesso composto alla stregua di una partitura musicale. Angus ce la farà. Angus troverà una famiglia. Ne sono la prova la serietà e la purezza dell’interpretazione di Sessa. Angus mente per proteggere il suo nuovo “zio”, il professor Hunham, e per risparmiare a un compagno l’umiliazione. Entre nous, si dicono Angus e Hunham, e si percepisce la fiducia.
Quale sarà la prossima impresa di Dominic Sessa? Sembra non avere limiti. E per giunta tutti lo portano su un palmo di mano. Sul petto ha un grande tatuaggio di quella che lui chiama “una casa sull’albero immaginaria”. Sembra una litografia che potremmo aver visto in un libro che amavamo da bambini. Dà un senso di accoglienza e protezione. Quando ho detto a Sessa che, vedendo quel tatuaggio, ho provato l’immediato impulso di arrampicarmici sopra per leggere e schiacciare un pisolino, ho pensato che fosse la mia età a parlare. Ho spiegato a Sessa che, una volta compiuti i 50 anni, tutta l’energia che un tempo impegnavo nella ricerca di esperienze sessuali ora la dedico alla scoperta di posti tranquilli dove potermi riposare. Sessa ha risposto: «Capisco», aggiungendo che per lui, a 21 anni, non è molto diverso. Ha poi puntualizzato che, invece, Alexander Payne ha una vera casa sull’albero. Famiglia.