Simon Royer
Suona il violino da quando aveva 5 anni, e poi compone, orchestra, lavora nella moda, si muove tra i mondi con naturalezza. È un artista che vive nella molteplicità
Sembra arrivato da un altrove cinematografico. O da un’astronave. Una gentilezza nei modi, il corpo sottile vestito di nero, il volto chiaro. Simon Royer attraversa lo spazio come se ne stesse rivelando un’altra dimensione. Ma è una dimensione concreta: 23 anni, suona il violino da quando ne aveva 5, Simon compone, orchestra, lavora nella moda, si muove tra i mondi con naturalezza.
Il suo percorso è iniziato in Bretagna, con una formazione classica passata attraverso la teoria musicale, l’orchestrazione e un pianoforte studiato quasi per necessità, mentre la passione restava il violino.

È un artista che vive nella molteplicità: sui social crea contenuti legati alla musica, nelle serate parigine appare come violinista ospite tra galà, aperture e festival, e dal 2022 è rappresentato come modello. Una combinazione senza attriti, lui stesso dice che i suoi universi comunicano tra loro, anche quando non lo decide.
La sua è una sensibilità che non cerca semplificazioni. Quando gli capita di ricevere sempre la stessa domanda – quale sia il suo compositore preferito – dà una risposta che cambia continuamente. «Dipende dall’età, dal momento. Forse preferisco parlare di un tipo di musica più che di un singolo nome».

Il luogo dove si sente davvero a casa è l’inizio del Novecento, quello spazio tra continuità e mutazione in cui «tutto ciò che apparteneva alla pratica e alla tradizione del secolo precedente esiste ancora, ma la creatività inizia ad aprirsi. È un equilibrio che sta per spostarsi». I suoi riferimenti sono quelli: Debussy, Ravel, modernità ancora in dialogo con quel che che l’aveva preceduta.
È interessante notare come questo sguardo – transitorio ma mai indeciso – ritorni anche quando parla del pop contemporaneo. Ripercorrendo mentalmente gli ultimi 70 anni di musica, riconosce come «dal 1950 in poi ci siano state successioni di stili che definivano le epoche: rock, grunge, brit pop, rap». Ognuno aveva un’identità dominante.

«Mi sembra che negli ultimi dieci anni ci sia una sorta di fermo, come se non ci fosse un pop predominante. Non vedo una grande cultura mainstream». Viviamo in una frammentazione permanente, e l’algoritmo guida le sensibilità più di quanto ci accorgiamo.
C’è poi l’aspetto nuovo della fan base, che non segue soltanto l’artista: lo condiziona, lo struttura. «Un artista», dice, «oggi deve corrispondere a un insieme di aspettative. Ma è il pubblico a mescolare estetica e morale, intrattenimento e ruolo sociale». Simon non sembra intimorito: per lui è una scelta che spetta all’artista «assecondare o sorprendere». Non c’è un giudizio.