Wes Anderson

Wes Anderson

Intervista all’inconfondibile regista texano, ormai sempre più europeo, di simmetrie, trovate e colori giocosi. Ora al cinema con “Asteroid City”. «Lo stile Wes Anderson? Non lo conosco. Io sono Wes Anderson»

di Simona Santoni

I capelli lunghi ma non troppo, docilmente long bob, il sorriso pennellato e attento, il completo bianco su una camicia quadrettata rosa pastello e i calzini blu. Quando lo incontriamo Wes Anderson sembra uscito da uno dei suoi film, elegantemente eccentrico, gentile e colorato. «Hi, how are you?», e vuole subito metterci a nostro agio.

A Milano per il suo nuovo lungometraggio Asteroid City (dal 28 settembre nelle sale italiane con Universal Pictures dopo l’anteprima al Festival di Cannes), il regista texano consolida il suo legame speciale con Fondazione Prada con la mostra Wes Anderson – Asteroid City: Exhibition, appena inaugurata e in corso fino al 7 gennaio 2024: in uno dei fascinosi spazi dell’ex distilleria meneghina del quartiere Vigentino sono esposti costumi, oggetti di scena e scenografie dell’undicesimo film di Anderson. Ecco variopinti distributori di caramelle, caffè e munizioni; un piccolo meteorite e un alieno smilzo, cactus di gommapiuma, il roadrunner pupazzo che ricorda il Bip-bip dei Looney Tunes, il treno in scala 1:8 che taglia la città immaginaria di Asteroid City… E sì, perché la minuscola cittadina desertica del West dell’America anni ’50 è stata costruita completamente da zero, persino nelle montagne rocciose rosse (sempre in gommapiuma), in una radura in Spagna nella periferia di Chinchón, cittadina circondata da vigneti e ulivi già scelta da Orson Welles per girare alcune scene di Storia immortale.

Ed è qui, ad Asteroid City, che accorrono cinque ragazzini brillanti astronomi, giovanissimi osservatori di stelle vincitori di premi scientifici, che portano con sé un gruppo sbrindellato di adulti dagli affioranti problemi emotivi: c’è il fotografo di guerra interpretato da Jason Schwartzman, che deve ancora comunicare ai suoi quattro figli che loro madre è morta; c’è la diva del cinema in vitino di vespa e rossetto messa addosso da Scarlett Johansson, che ricorda star anni ’50 come Marilyn Monroe, Jane Russell e Kim Stanley; c’è il suocero risoluto che gira con una pistola che sbuca dalla cinta dei pantaloni, ovvero Tom Hanks. In verità tutti personaggi di una commedia nella commedia, dove il teatro si fa cinema.
E poi, come in ogni film di simmetrie e trovate giocose di Wes Anderson, una carrellata di grandi attori: anche l’immancabile Tilda Swinton, Bryan Cranston, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Steve Carell, Matt Dillon, Willem Dafoe, Margot Robbie…

Wes Anderson
Credits: Giulia Parmigiani
Wes Anderson a Milano in Fondazione Prada alla mostra “Wes Anderson – Asteroid City: Exhibition”

Occhi all’insù verso il cielo, teatro, Fondazione Prada, progetti futuri: abbiamo parlato di tutto ciò con Wes Anderson, che tra l’altro ha appena portato alla Mostra del cinema di Venezia il cortometraggio La meravigliosa storia di Henry Sugar, ispirato al racconto di Roald Dahl e rilasciato su Netflix il 27 settembre.

In Asteroid City, ma anche in altri suoi film tipo Moonrise Kingdom, sembra che i bambini e i giovani siano più consapevoli e pronti degli adulti ad affrontare i misteri e le difficoltà della vita. Cosa ne pensa? Ha fiducia nelle nuove generazioni?

«Sì, è così. Quando ero più giovane leggevo e studiavo in continuazione, ero così interessato ad assorbire tutto e ad imparare. Proprio qualche giorno fa ho visto un piccolo film sull’architetto Richard Rogers, che era un amico di famiglia, morto un paio di anni fa o forse un anno e mezzo fa… non ho la dimensione del tempo. Alla sua commemorazione Renzo Piano, con cui ha collaborato, insieme hanno realizzato il Centro Pompidou… Oddio, ho parlato così tanto che ho perso la mia risposta, qual era la parte finale della domanda?», sorride divertito.

Se ha fiducia nelle nuove generazioni…

«Ecco, sì, Renzo Piano nel suo discorso ha raccontato come tutti noi siamo l’accumulo dei libri che abbiamo letto, dei film che abbiamo visto e delle persone che abbiamo incontrato, tutto questo ci forma. I giovani si stanno ancora formando, sono aperti, perché c’è ancora così tanto che devono far entrare e assorbire. Quando invecchi, invece, c’è già così tanto dentro, in un certo senso sei già formato anche se puoi crescere, cambiare e adattarti. I più giovani hanno quindi quasi un vantaggio fisico su come affrontare nuove cose e un mondo nuovo. Credo anzi che possa essere una condizione scientifica vera e propria, similmente a come il loro sistema immunitario sia più forte e reattivo».

Asteroid City è una commedia nella commedia che parla anche di teatro. Il teatro sembra anche radicato nei suoi film e nelle sue scenografie. Lo ama? C’è magari nel futuro la scrittura di una pièce?

«Mi piacerebbe scrivere un’opera teatrale. Credo comunque che i film siano teatro, persino un documentario è a suo modo teatro: qualcuno lo modella e controlla. Sicuramente un film, che ha una sceneggiatura e degli attori che recitano delle scene, è un’opera teatrale. Fellini, ad esempio, nel suo cinema abbraccia completamente il teatro e parte del fascino dei suoi film è proprio il modo in cui sviluppa la storia sul palcoscenico. Ho sempre amato queste commistioni. Il cinema hollywoodiano deriva molto dagli studi cinematografici, dove ogni set è costruito. Sono attratto da questa tradizione».

Lavora spesso con tanti attori bravi e famosi, di solito ricorrenti come Tilda Swinton, Adrien Brody o Bill Murray, ma è la prima volta che lavora con Tom Hanks. Perché solo ora? Com’è stato?

«Adoro Tom Hanks e volevo lavorare con lui da tempo. Talvolta capita, con alcuni attori, che ogni volta che li vedi sul set ti stupisci: ‘Wow, c’è Tom Hanks’. Con lui è sempre una sorpresa, perché è una figura così grande e nota del cinema ed ero quasi meravigliato che fosse con noi sul set. Non avrei potuto essere più felice. E a lui piace far parte di un gruppo, quindi credo che fosse anche lui felice. Lo sentivo».

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Credits: Courtesy of Roger Do Minh/Pop. 87 Productions/Focus Features
Wes Anderson sul set di “Asteroid City” con Jason Schwartzman e Tom Hanks

Milano ospita la sua mostra Wes Anderson – Asteroid City in Fondazione Prada, con cui ha ormai un rapporto consolidato. Come nasce?

«Di solito, quando esce un mio film in Italia, la prima idea che mi balena è sempre di fare qualcosa con Fondazione Prada, al loro cinema. E così ho chiesto: ‘Quando facciamo qualcosa?’. Avevano a disposizione uno spazio vuoto e mi hanno invitato a usarlo. Abbiamo portato tutto quello che potevamo portare di Asteroid City, montando qualcosa di simile alla mostra già realizzata in Inghilterra. Ab Rogers, figlio dell’architetto Richard Rogers che ho citato prima, ha progettato l’installazione insieme ai tecnici di Fondazione Prada. Hanno fatto un ottimo lavoro».

Asteroid City è stato girato in Spagna anche se è un film totalmente americano, che racconta un’America anni ‘50. Lei da 15 anni circa vive anche in Europa tra Parigi e Londra: crede che abitare in Europa abbia influenzato il suo modo di fare film?

«Sì, sì, sì e sì. Credo che tutto mi influenzi, e sicuramente lo fa il fatto di essere in Europa. Se non vivessi in Europa, ad esempio, sono sicuro che avrei girato questo film in America: sarebbe stato più semplice, ma volevo girarlo qui. Per Asteroid City ho pensato spesso a Wim Wenders: non è americano e non è propriamente il tipo di film che farebbe, ma la sua prospettiva sull’America, che è quasi visiva, e le sue idee mi hanno influenzato. Wenders mi ha fatto vedere l’America in modo un po’ diverso e credo che, in un certo senso, il fatto di portare la storia fuori dall’America e metterla su un terreno agricolo spagnolo, come abbiamo fatto, sia qualcosa che riguarda l’influenza di essere stato in Europa per molti anni».

Anche se forse non le piace sentirselo dire, i suoi film sono molto riconoscibili, in Wes Anderson style. Pensa mai, un domani, di stupire tutti con un film di scenografie, dialoghi e colori più classico?

«Non conosco il Wes Anderson style. Ovvero: io sono Wes Anderson. Sarebbe un po’ come scrivere con la calligrafia di qualcun altro: puoi provarci, ma alla fine probabilmente assomiglierà di più alla tua calligrafia. E, soprattutto, scrivere un libro con la calligrafia di qualcun altro è quasi impossibile. Il processo di invenzione di una storia è complicato, non si può controllare ogni singola parte, ti porta dove vuole. Un film non è una decisione, non è una manciata di decisioni, è un trilione di decisioni e queste decisioni sono spesso la risposta alla domanda ‘cosa vuoi?’. Io cerco di fare quello che voglio. Per me i miei film sono ognuno qualcosa a sé stante: uno è ambientato in un Paese, uno in un altro, uno ha una serie di personaggi, uno ne ha un’altra. I miei film sono quello che sono ma non posso dire di poterli rendere non me. La persona migliore per farlo è qualcun altro»

In passato ha progettato il Bar Luce della Fondazione Prada, ispirandosi a due film capolavori del Neorealismo italiano: Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Quali sono i suoi registi, attori e film italiani preferiti, di oggi e di ieri?

«Credo che Sorrentino sia il più grande oggi, no? Quindi Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e Luca Guadagnino, certo. Amo i film di Luca e adoro Luca, e anche Paolo, che ho incontrato qualche volta, lui e i suoi film. Adoro i principali registi italiani degli anni ’50, adoro i film di Fellini, in particolare i primi e gli ultimi. E, soprattutto, adoro Pietro Germi, uno dei miei registi preferiti in assoluto, di cui ho visto Sedotta e abbandonata, Divorzio all’italiana, Signori & Signori, Alfredo Alfredo… Amo questi film, adoro la sua voce».

Progetti futuri? Ho letto che ha una sceneggiatura già pronta per un nuovo film con Benicio del Toro…

«Non posso dire molto ma è vero: abbiamo in mente un ottimo gruppo attorno a Benicio. Gli attori però al momento sono in sciopero quindi, una volta che saranno state trovate le soluzioni, saremo pronti a farlo».

Speriamo presto…

«Grazie», chiudendo in un simpatico italiano.