André Leon Talley

André Leon Talley

di Gianluca Cantaro

A gennaio ci ha lasciato un gigante della moda: abbiamo chiesto di ricordarlo al celebre giornalista, e amico di una vita, Michael Roberts, che ci ha raccontato… 

Erano poco più che ventenni quando Michael Roberts (1947), di Aylesbury, cittadina tra Londra e Oxford nel Buckinghamshire, e André Leon Talley, americano nato a Washington, si conobbero all’inizio dei Seventies. Insieme sono stati tra i protagonisti della costruzione del fashion system più scintillante di sempre, quello che ha attraversato gli anni 70, 80 e 90 scoprendo creativi, definendo mode, abitudini e stili di vita; che ha influenzato e continua a influenzare l’estetica. Quello che, con l’avvento di internet, ha iniziato a cambiare e oggi, forse, non esiste più. Abbiamo chiacchierato con il giornalista, scrittore e illustratore inglese, che ha ricordato con noi l’amico di una vita, scomparso a gennaio, tra lavoro, social life e curiosità. Proprio lo scorso gennaio la regina Elisabetta II ha insignito Roberts dell’onorificenza di Commander of the Order of the British Empire per il lavoro svolto nella moda: «Dovrò aspettare giugno prima di ritirarla», scherza. «Ma è li che mi aspetta». Parla dalla sua casa a Taormina dove ora vive: «Eravamo sempre divisi dal mare», ricorda. «André viveva a New York, io a Londra. Poi lui era al WWD a Parigi e io al Sunday Times (come fashion editor, ndr) in Inghilterra. Ma ci legava il fatto che eravamo entrambi neri. Però, lui lo era molto più di me. Io ero un nero onorario», ironizza. «Lo notavo soprattutto quando, di tanto in tanto, andavo in chiesa a New York. A Londra, il fashion system era composto soprattutto da gente bianca ed era legato alla tradizione, mentre lì era più una questione di attitudine ed entusiasmo e André era il centro intorno al quale girava tutto. Durante il mio primo viaggio a New York mi fece da guida e mi mostrò i posti più pazzeschi. Una volta mi disse “devo portarti a una serata che non puoi perdere” e andammo al porto in un club S&M. Non avevo mai visto niente di simile, era un posto molto famoso e ci andavano celebrities come Andy Warhol e altri artisti contemporanei. Vedere una cultura così ampia, aperta e non esclusiva, mi ha aperto gli occhi. Poi, ovviamente, andavamo allo Studio 54 e lui conosceva tutti». Le immagini della discoteca più famosa di quegli anni sono ormai celebri e Talley era uno dei protagonisti.


Artwork by Michael Roberts

Nato nel 1948, era stato cresciuto con una rigida educazione dalla nonna materna, donna delle pulizie, a Durham in North Carolina negli anni in cui la segregazione razziale era ancora aspra. Fin dal college sognava attraverso le pagine di Vogue, che comprava diligentemente, sfidando i bulli bianchi nel tragitto fino all’edicola, come rivela nel documentario a lui dedicato The Gospel According to André (2017). «Amava la grandeur, che in qualche modo si rispecchiava nel suo essere anche gigante (era alto 198 cm e di stazza importante, ndr)», racconta Roberts. «Manolo (Blahnik, il designer di scarpe inglese, suo amico del cuore, ndr) gli disegnava le calzature su misura e anch’esse erano enormi, in colori che solo lui sapeva portare e abbinare divinamente. In più, anche il suo modo di comunicare era “bold”: ricevevo i suoi testi scritti a pennarello con caratteri macro e già da soli facevano statement. Amava o odiava: non aveva vie di mezzo». Nel 1974,Talley si trasferì a New York e iniziò a lavorare al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art come volontario per la mostra Romantic and Glamorous Hollywood Design, curata da Diana Vreeland, la leggendaria editor di Harper’s Bazaar e poi direttrice di Vogue. Il suo primo incarico fu montare su un manichino l’abito di Lana Turner nel film Il figliuol prodigo di Richard Thorpe. Quando Vreeland vide il risultato capì il potenziale di André e lo volle al suo fianco per tutto l’allestimento. Lo fece poi assumere a Interview, la rivista fondata da Andy Warhol e che ai tempi era il faro della vita e delle tendenze newyorkesi.

Andre Leon Talley and Anna Wintour attend the Costume Institute gala at the Metropolitan Museum of Art, New York, New York, 1999 / Getty Images

Così prese il volo, prima responsabile della redazione parigina di WWD e poi del periodico W, per approdare a Vogue nel 1983, dove lavorò per il resto della carriera. «Era impavido e coraggioso. Anche se alla gente piace pensare che avesse avuto grandi litigi con Anna Wintour, in realtà non era così. Certo, come in ogni famiglia ci sono degli screzi, magari non ci si parla per un po’, ma alla fine si fa la pace. André e Anna erano meravigliosi insieme, amavano parlare di moda, ne esploravano ogni possibilità e facevano previsioni, mai banali. La sua scomparsa l’ha resa molto infelice», racconta Roberts. La “scuola Vreeland” ha sublimato l’inclinazione naturale di Talley per lo stile e l’eleganza e il suo arrivo a Vogue, con Wintour, ha permesso alla rivista di diventare ancor più potente. Per lui esisteva soltanto il meglio e raggiungerlo gli veniva spontaneo; il resto non era contemplato. «Quando ero style director e art director a Tatler», prosegue Roberts, che è stato anche design director di Vogue UK e precedentemente style director di Vanity Fair, «mi presentò questa ragazza inglese dicendomi di prenderla come assistente. Si chiamava Isabella Blow (che divenne icona fashion e talent scout, scoprendo, tra gli altri, Alexander McQueen e Stella Tennant, ndr). 


Karl Lagerfeld, Andre Leon Talley and Gareth Pugh (Photo by DAVID X PRUTTING/Patrick McMullan via Getty Images)

Era sempre impeccabile, vestita come se fosse a un party anche alle nove del mattino, André aveva un fiuto incredibile. Se dovessi definirlo con quattro parole direi: stylish, positivo, spontaneo e educato. Era di una gentilezza e generosità sconfinate. Quando Isabella iniziò a soffrire di depressione (morì suicida nel 2007, ndr) si prendeva cura di lei, la tranquillizzava. Trovava sempre un momento nella sua pienissima agenda per assicurarsi che le persone che aveva conosciuto e che ammirava stessero bene». André era un’icona della moda, ma aveva altre passioni al di fuori del settore?, chiediamo a Roberts. «Sicuramente mangiare», esclama. «Un vero buongustaio. Gli piaceva andare nei ristoranti inglesi ed era come parte di un rituale, compresa la scelta del look. In generale preferiva i locali storici. A Milano andava da Bice, alle Langhe e in tutti quelli più tradizionali». Inaspettato per un protagonista di quel fashion system che un tempo ripudiava il cibo perché considerato volgare. Un motivo in più per amarlo.