La stoffa  di Armani  per il cinema

La stoffa di Armani per il cinema

di Michela Gattermayer

«Un filo rosso che attraversa tutta la mia carriera, passo dopo passo». È così che il grande stilista ama descrivere il suo legame, oramai quarantennale e quasi simbiotico, con il cinema. Perché è anche attraverso il grande schermo che il suo gusto e il suo stile inconfondibili hanno influenzato profondamente il nostro immaginarrio collettivo e la nostra idea di eleganza

Se Giorgio Armani fosse un film sarebbe un grande classico in bianco e nero. Di quelli che la tivù passa senza preavviso, ma se ci capiti facendo zapping non puoi non fermarti per guardarlo fino alla fine, anche se sono le tre di notte, anche se l’hai già visto dieci volte e hai la cassetta (la tieni per ricordo) e il dvd (chissà dov’è finito). Insomma, uno dei tuoi film preferiti. Perché Giorgio Armani è cinema. Non foss’altro che, se non abbiamo contato male, ha disegnato abiti per 237 pellicole. Il primo, lo sanno tutti, è stato American Gigolò nel 1980. Ma forse non tutti sanno che il giovane regista Paul Schrader aveva scelto John Travolta. «Invece», racconta Giorgio Armani, «è arrivato un giovanissimo e semisconosciuto Richard Gere a provare i 120 outfit. Mai avrei immaginato l’impatto della pellicola sullo spirito degli anni Ottanta, la presa mordace sul pubblico del periodo, e non solo. La sequenza quasi feticistica nella quale Richard/Julian Key sceglie cosa indossare in un armadio pieno di mie creazioni fu più penetrante ed efficace di una serie di spot».


Billy Drago in The Untouchables – Gli intoccabili, 1987

Oggi si parlerebbe di influencer, ma allora non esistevano e non era così scontato che un piccolo film avrebbe cambiato la vita e lo stile di così tante persone. Da lì Armani non si è più fermato: i suoi smoking hanno percorso chilometri di red carpet addosso a tutti i divi di Hollywood e non solo; le sue giacche sono state protagoniste di film come Strade di fuoco e Batman, Gli intoccabili e Quei bravi ragazzi, Guardia del corpo e Pulp Fiction, e poi Nirvana, Mars Attacks!, Minority Report, 007 Casino Royale, The Wolf of Wall Street… tutti blockbuster, un elenco impressionante. Tanto cinema americano con Martin Scorsese e Brian De Palma in primis. Ma anche Bernardo Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino. Sarà che Giorgio Armani è una garanzia di stile sicuro, dentro e fuori dallo schermo. Sarà che i suoi abiti disegnano perfettamente i personaggi. Sta di fatto che in tutti i film che portano anche la sua firma è impossibile non accorgersi del suo “Italian touch” che lo ha reso così famoso e universale. Tempo fa, e non è una battuta, uscì la notizia che i due uomini più famosi al mondo erano lui e… Gesù Cristo.


John Malkovich in Attenti al ladro!, 1991

Sicuramente quando il Time lo mise in copertina come uomo dell’anno (1983) fu l’inizio di una nuova era per la moda, perché a uno stilista (allora non si chiamavano fashion designer) veniva riconosciuta la responsabilità di un cambiamento epocale che non riguardava solo l’immagine ma, preveggenti a New York, immaginavano che ci sarebbe stata un’onda lunga che avrebbe travolto abitudini e anche economia. Così è stato. E la moda è diventata il business che conosciamo. Con Giorgio Armani sempre protagonista di un suo personale film che non ha mai seguito tendenze, ma che ha continuato a scrivere una trama precisa, sempre ricca di sorprese e colpi di scena. Perché trattasi di uomo curioso e intelligente che, tornando al cinema, si è lasciato affascinare da storie diversissime: mafia, fantascienza, thriller, supereroi, malavita, western… «Il cinema», conferma lui «è una fonte costante di idee e ispirazioni.

Mi sono spesso chiesto cosa sarebbe stata la mia vita senza il cinema. Sicuramente non sarei l’uomo e lo stilista che sono oggi. La corona di ferro di Blasetti, 1941, è stato il primo film che ho visto. Avevo 8 anni e ne rimasi così impressionato da sognarmelo anche di notte: le scene sontuose ed esotiche e quegli abiti ricchissimi e sensuali. In seguito sono stato attratto dall’eleganza che si vedeva nei film di quegli anni – composta, dignitosa, senza grandi ostentazioni, ma sempre appropriata. Per me un vero imprinting estetico. Le proporzioni dei pantaloni e delle spalle, le disegnature mescolate, l’idea di fare di più con meno. È un approccio che ho fatto mio e che ho applicato alla mia moda».


Christopher Walken in Cortesie per gli ospiti, 1990

Perfettamente consapevole che un film e una sfilata sono cose diverse, Giorgio Armani ha sempre “diretto” show molto cinematografici, soprattutto nell’uso delle luci (spesso l’occhio di bue che segue i modelli e il buio totale che è tipico delle sale cinematografiche di una volta) e di un certo minimalismo estetico che si potrebbe dire alla Antonioni. Anche le architetture dei palazzi milanesi firmate da Tadao Ando sono scenografie perfette per non distrarre l’attenzione dai suoi abiti. Lì Armani ci lavora, ma abita nel settecentesco Palazzo Orsini, con vista sull’Osservatorio di Brera e un grande gorilla verde, opera del designer Marcantonio (dono delle nipoti) proveniente da un set cinematografico, poi apparso nelle sfilate, a occupare un posto d’onore in salotto. Il che dimostra l’eclettismo, inaspettato in un uomo così rigoroso. E il cinema ha la sua responsabilità «Era l’unica forma d’intrattenimento, assoluta e sorprendente. Le infinite sfumature del bianco e nero invitavano a fantasticare su nuances e colori invisibili. E quando arrivò il technicolor… una sorpresa! Il cinema era una meravigliosa fuga dalla realtà, ma anche la fantasia che si concretizza. Nel cinema tutto è possibile». Anche un abito perfetto.


Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di Quei bravi ragazzi, 1990