Pitti: dentro o fuori?

Pitti: dentro o fuori?

di Gianluca Cantaro

La manifestazione fiorentina cresce nei numeri ma sembra troppo scollegata dal fermento in corso sull’estetica contemporanea dove i concetti di genere e identità si stanno evolvendo

L’edizione 102 di Pitti Uomo, fiera che si svolge a Firenze dentro e fuori la Fortezza da Basso, accelera per provare a raggiungere i livelli di affluenza pre-pandemia. Con un numero di espositori in crescita rispetto alla stagione scorsa (682 brand, di cui 280 dall’estero, contro i 548 di gennaio, con 164 da fuori) si rianima per ritrovare l’entusiasmo di un tempo. Ma la riorganizzazione dei padiglioni e l’atmosfera festaiola hanno un po’ confuso il layout logico. Le sezioni in cui era divisa prima dell’arrivo del Covid-19, forse troppo rigide per alcuni, avevano però una narrativa di stile coerente che spiegava i diversi lifestyle, il reshuffle della dislocazione dei marchi e i dj set improvvisati di quest’anno, invece, più che regalare positive vibes hanno ricordato Bread and Butter, la manifestazione fieristica esistita tra il 2001 e il 2018, che persa l’hype iniziale e dopo varie riformulazioni ha chiuso così, anche se è chiara la necessità di nuova linfa, forse questa non è la soluzione. Però l’aspetto che salta più all’occhio è come la Fortezza rimanga simbolicamente un universo troppo distante da quello che la moda e il mondo maschile in generale stanno vivendo, creando una dicotomia tra dentro e fuori. All’interno il gran numero di aziende che sono slegate dalle dinamiche strettamente fashion con un modus operandi un po’ datato. 


All’esterno lo tsunami del ‘genderless’ (purtroppo categorizzato come trend, anziché come pensiero sociale) che porta con sé le battaglie legate a parità di genere e inclusività, temi che per fortuna, grazie anche ai social media, sono sempre più in primo piano, pur se non ancora abbastanza. Non si tratta di giudicare i primi o i secondi, né di puntare il dito verso chi è troppo legato a stilemi ormai antiquati o se n’è completamente liberato, perché non è questo l’oggetto del contendere. La libertà di vestirsi è sacrosanta, indossare abito sartoriale e cravatta, scegliere linee più fluide oppure sovvertire l’estetica definita da convezioni secolari, non deve creare fazioni, perché si discrimina con il pensiero e non con il look, incasellare l’abbigliamento in orientamenti ideologici creerebbe divise e farebbe cessare sul nascere la rivoluzione liberale e inclusiva in atto. Il vero punto è chiedersi se Pitti ha intercettato questo cambiamento. Se fino a qualche anno fa gli eventi speciali con designer internazionali che animavano le serate fiorentine facevano da contorno a una proposta più ‘classica’ completandone l’offerta, oggi si percepisce la necessità di una maggiore organicità.


La manifestazione più importante del mondo deve sensibilizzare, sia attraverso padiglioni sia con le sfilate, su come il ruolo dell’uomo e di conseguenza del suo guardaroba siano cambiati. Tra gli stand mi è stato chiesto con sarcastica curiosità cosa penso dell’uomo con la gonna, allo stesso tempo, poco fuori dalle mura a pochi metri dall’ingresso, Sapio (brand alla quarta collezione fondato durante la pandemia da Giulio Sapio, ex Rick Owens) con impalpabili caftani/chemisier, tailoring affilato e pezzi di pelle bianca che contrastano con il nero rigoroso della collezione, abbatte ogni barriera di genere creando un guardaroba speculare dove l’unica differenza è un leggero adattamento delle taglie alle fisicità maschili e femminili. Tutto estremamente spontaneo, come bere un bicchier d’acqua. Ma entrare poi nella Fortezza per rivedere la parata dei cosiddetti ‘peacock’ cristallizzati nel passato, mi ha fatto riflettere che forse la soluzione potrebbe essere l’abbattere idealmente i muri della costruzione cinquecentesca che limitano il dialogo anche visivamente. Penso sia importante creare un corto circuito dove i fanatici dell’abito su misura (a volte troppo piccolo) e gli appassionati del Camp, per esempio, si incrocino, conversino e si contaminino a vicenda, in un flusso costante senza fazioni, scambi di accuse ideologiche e discriminatorie. C’è spazio per tutti, ma soprattutto ci deve essere il rispetto per ogni persona e punto di vista. 

FLORENCE, ITALY – JUNE 15: A look of Ann Demeulemeester is displayed at the fashion installation at Stazione Leopolda during Pitti Immagine Uomo 102 on June 15, 2022 in Florence, Italy. (Photo by Stefania M. D’Alessandro/Getty Images)

L’imposizione o giudizio di pattern estetici, qualunque essi siano, non sono propedeutici all’inclusione, ma sono soltanto uno sfogo di frustrazioni. La dicotomia risulta ancora più evidente quando si assiste alla sfilata di Wales Bonner, Menswear Guest di questa edizione. La visione sfaccettata della designer inglese di padre giamaicano (appena insignita del Mbe Membro of the Order of the British Empire, per i servizi resi alla moda) e che ha lanciato il suo brand nel 2014, allontana ancora di più i due mondi. 

Lo show, co-ed, ha fatto convivere con delicatezza diversi aspetti della craftsmanship afro-atlantica ed europea con pizzi macramè dai ricami preziosi, tailoring morbido, ma preciso e prezioso, stampe, denim. Maschile e femminile diventano una parte secondaria del discorso dove il soggetto è cultura e bellezza. In più la venue, Palazzo Medici Riccardi, è stata resa ancora più speciale dall’artista di origine ghanese Ibrahim Mahama che l’ha decorata con sacchi di juta cuciti insieme a mano.


Allo stesso modo, alla Stazione Leopolda, la retrospettiva dedicata ad Ann Demeulemeester, acquisita da Claudio Antonioli (fondatore dell’omonima catena di negozi) attraverso la sua Dreamers Factory, parla di uno stile senza distinzioni di genere con silhouette che rimangono desiderabili per la loro androginia, anche a distanza di decenni. ‘Il fatto che non si capisca cosa sia nuovo e cosa sia d’archivio mi piace particolarmente perché il mio è un lavoro emotivo’, spiega la designer belga, parte del famoso gruppo degli Antwerp Six di creativi laureati alla Royal Academy of Fine Arts tra il 1980 e l”81. 46 abiti che sono un racconto lungo 30 anni che va dal 1993 fino a oggi, con uno stacco di dieci, quelli in cui lasciò la direzione creativa (dal 2013) fino all’acquisizione di due anni fa. È proprio questa la direzione da seguire per il futuro di Pitti. Riformulare tutto scrivendo un nuovo percorso che porti l’universo maschile a giocare su un unico terreno in modo che l’occhio e il pensiero si abituino che la moda non è diversità, ma personalità. Senza divise o preconcetti, dove i peacock convivono con le avanguardie più estreme. Si deve quindi riflettere se la Fortezza da Basso debba diventare un hub aperto 24 ore su 24 dove accogliere anche tutto ciò che accade fuori oppure chiuderla per sempre e trasformare Firenze in una esposizione senza barriere reali e concettuali