

Trashy Clothing e la moda come atto politico
Chi c’è dietro Trashy Clothing? Il brand palestinese che si auto definisce un marchio di “lusso anti-lusso”. Un mix di satira, kitsch e arguzia che affronta temi politici attraverso un design intriso di resistenza anticoloniale e una gioiosa militanza artistica
Viva la moda che ha ancora qualcosa da dire. Viva la moda che ha voglia di mandare messaggi potenti, profondi, coraggiosi seppur forgiandosi di uno scudo di umorismo e satira. Ed è quella che vi raccontiamo oggi. Quella di Trashy Clothing, un marchio palestinese fondato nel 2018 da Shukri Lawrence e Omar Braika che si definisce un anti-luxury brand.
Riferimenti queer, politica, satira, resistenza: Trashy Clothing è questo e molto altro
Un marchio tanto furbo, quanto provocatore e coraggioso: questo è Trashly Clothing; che insieme agli abiti confeziona anche profonde dichiarazioni politiche e sociali. Segni particolari? Un approccio dissacrante e l’uso dell’umorismo come arma per affrontare temi politici complessi e far riflettere sul conflitto israelo-palestinese, sulle questioni di genere, sessualità e identità culturale. Il duo creativo composto da Shukri Lawrence e Omar Braika si diverte così a prendere in giro la cultura pop occidentale, la politica mediorientale e il cattivo gusto, nel tentativo di rivendicare l’identità palestinese e sovvertire ciò che è considerato diverso, scadente e trash nella cultura moderna.

Il marchio fa sua una peculiarissima narrazione estetica che mescola kitsch, satira e messaggi di militanza artistica. Trashy Clothing non teme di parlare di occupazione, apartheid e resistenza culturale, trasformando ogni collezione in una piattaforma per far risuonare la voce palestinese. L’idea di resistenza si manifesta non solo nei temi politici, ma anche nella scelta di usare la moda come mezzo per smantellare i cliché che il pubblico occidentale associa alla Palestina. Un’estetica kinky, fluida, sexy e queer si mescola così a capi, texture e forme dal sapore mediorientale sfidando le aspettative occidentali, destabilizzando quell’immaginario comune che riduce la Palestina a un luogo chiuso, lontano da noi, fatto solamente di conflitti e privazioni. Ma che invece è fatto di persone della nostra stessa pasta.
L’ironia non è mai stata una questione così seria
Trashy riguarda la narrazione sotto occupazione, l’elaborazione di sentimenti e contraddizioni complesse e l’utilizzo della satira come registro attraverso cui esprimere resilienza. In effetti, la narrazione è al centro della missione di design del marchio: attraverso articoli essenziali come i “pantaloni da ispezione”, la “giacca Identity Hood” e la “gonna Tourist Wrap”, vengono esposti problemi come il pinkwashing, l’artwashing e l’appropriazione culturale. I lookbook e le campagne offrono allo spettatore e al consumatore un’ancora estetica alla coscienza politica che anima il marchio. Trashy Clothing non presenta semplicemente gli abiti per il loro valore estetico, ma piuttosto apre gli occhi dei consumatori, spesso attraverso la presa in giro dietro le sue collezioni.

L’ironia dei capi sdrammatizza questioni serie, rendendo i messaggi accessibili a un pubblico più ampio. Una delle loro creazioni più provocatorie è una t-shirt che recita “Occupy My Heart”, un mix di romanticismo e denuncia sociale che sintetizza perfettamente la filosofia del marchio. Degna di nota anche la collaborazione con GmbH, marchio berlinese, per la collezione Free Palestine. Nonostante abbia partecipato sia alla Paris che alla Milano Fashion Week resta un brand di nicchia. D’altronde chi alza la voce non piace proprio a tutti, e non è per tutti. Ma chi se ne intende almeno un po’, chi scava oltre la superficie e l’hype culture lo conosce già bene. Tra i volti noti lo abbiamo visto portato con fierezza da personaggi come Julia Fox, Bella Hadid, Mahmood e Saint Levant; personaggi che a differenza di altri hanno qualcosa da dire, proprio come Trashy Clothing.