Prodotti, prezzi, campagne, rilanci e appetiti. Radici, ritorni, consumi, affetti e fratture. Vita no stop di Alessandro Benetton, un ex pigro condannato all’impazienza – di Raffaele Panizza

Da spazzacamino a capoazienda, nello spazio non proprio adsl di quasi un quarantennio. Quale antidoto migliore in mano ad Alessandro Benetton per rimandare al mittente ogni etichetta di erede designato? Il primo incarico che suo padre Luciano gli mise sulle spalle se lo ricorda ancora, nell’estate del 1976: infilarsi nelle condotte di riscaldamento dell’azienda di famiglia a Ponzano Veneto per ripulirle da cima a fondo: «Una situazione surreale. Mi sembrava di essere Oliver Twist». Dopo pochi mesi finisce persino sui cartelloni pubblicitari della linea 0-12, in veste di minimodello. L’impatto col capitalismo familiare è precoce, insomma, ma ciò non gli impedisce di cercare la propria strada anche lontano dai protettivi maglioncini di casa. Così si laurea Bachelor of Science alla Boston University e consegue un master in Business Administration ad Harvard. Poi fa l’analista finanziario per Goldman Sachs e fonda 21 Investimenti, una delle prime società di private equity italiane.

Un giro lungo, come spesso accade, per ritornare più forti sulla linea dello start. Dallo scorso aprile, a 48 anni appena compiuti e dopo un riscaldamento nelle vesti di vicepresidente esecutivo, Alessandro Benetton ha preso in mano le redini del gruppo. Con una bella lista di sfide: battere la concorrenza di Zara, Stradivarius, Uniqlo e Primark e delle infinite altre declinazioni del retail d’abbigliamento mondiale. Rilanciare il marchio. Reinventare i negozi. Risollevare gli utili. Lavorare su tutti i marchi del gruppo.

Una prospettiva da far tremare i polsi, lo ammetta.

«No, se s’affronta con un’idea in testa. Noi vogliamo ricostrui-re un’azienda in cui marchio e qualità del prodotto tornino 
a identificarsi completamente».

Una frase che pronuncerebbero anche i suoi concorrenti, però.

«Magari sì: lo dicono, ma non è detto che lo facciano. Noi non facciamo moda usa e getta. Facciamo cose destinate a durare nel tempo».

Il Sunday Times faceva notare che un cardigan da Zara costa 15 sterline, da Benetton 25.

«L’esempio specifico non lo voglio discutere. Dico solo che le materie prime che usiamo noi, naturali e di qualità, hanno subito negli ultimi anni rincari fortissimi. Un jeans fatto come si deve non può costare 9 euro e 90, parliamoci chiaro. In futuro la nostra comunicazione sarà rivolta a far comprendere sempre di più il valore aggiunto dei nostri prodotti».

Non vedremo più pontefici intenti a sbaciucchiarsi con gli Imam, quindi.  

«Di certo continueremo a tenere i grandi problemi del mondo al centro delle nostre campagne. Il lancio di Unemployee of the year ne è l’esempio: cento milioni di giovani che lottano per un lavoro sono un dramma e uno spreco di energie globale: Michelangelo non aveva 30 anni quando scolpì la Pietà. Einstein 26 quando formulò la relatività. Con la fondazione UnHate finanzieremo così cento giovani idee: una goccia nel mare che forse diventerà una cascata».

Tra i suoi primi atti da capoazienda c’è stato il rilancio del marchio Playlife.

«Uno dei tanti figli di Benetton che aveva ancora molto da dire anche se nessuno se n’era accorto. Un marchio nato nel mondo dello sport agonistico, indossato ad esempio dagli azzurri alle Olimpiadi di Sidney. Con una grande storia e radici vere, insomma. Nello stile della collezione poi c’è anche un po’ di me: la campagna, i colori del New England, il foliage.  Un prodotto non è solo un fatto consumistico. È una questione di affezione».

Quella fibbiona col muso da bufalo che indossa spesso dove l’ha comprata?
«In Messico, da un pescatore che per arrotondare trasportava merci da una spiaggia all’altra, per i mercati. Ce l’ho dal 1982. Il mio armadio è pieno di oggetti così».

È uno spendaccione?
«Direi proprio di no. Mi piace fare scoperte, comprare cose diverse. L’idea che per essere felici si debba acquistare è quanto di più lontano da me».

Non mi piace spendere, mi piace scoprire. L’idea che per essere felici si debba acquistare è quanto di più lontano da me.

Il luogo il cui si sente più fortemente se stesso, la sua casa sull’albero, qual è?

«È una casa mobile, che si trova ovunque ci sia la natura, e ovunque ci sia qualcosa che mi appassioni».

È un iperattivo?

«Un iperattivo divenuto tale perché spaventato dalla propria invincibile pigrizia. Da ragazzo facevo fatica persino a svegliarmi la mattina. Così mi sono creato uno stile di vita senza soste: in settimana scelgo le salite, professionalmente parlando, e nel weekend invece le discese, che siano quelle di una pista di montagna o di un’onda scavalcata col kitesurf».

Alcuni fan sfegatati sostengono che ormai sappia sciare meglio di sua moglie Deborah Compagnoni.

«Con Deborah non si compete. Anche io comunque me la cavo; l’anno scorso ho concluso con successo il corso di allenatore federale, che è lo stadio successivo a quello di maestro di sci».

Ad acciacchi come andiamo?

«Tengo botta. Quando ho iniziato col kite le attrezzature erano molto meno evolute, e più pericolose, e di botte ne ho prese tante. A causa dello sci poi mi sono dovuto rifare un ginocchio da zero, tanto che ormai, quando un amico mi chiama dopo un incidente sportivo, riesco a fargli la diagnosi in tempo reale, precisa e puntuale. Le fratture le ho provate praticamente tutte sulla mia pelle».

Benetton tornerà mai a impegnarsi in Formula uno?

«Credo di no. Mi pare che il circo dell’auto abbia completamente perso il romanticismo degli anni Settanta e Ottanta. È uno sport per specialisti. Se potrò, invece, sosterrò gli sport minori, dove il sacrificio dell’uomo è più forte della prestazione della macchina».

Con un gruppo così grande sulle spalle si riesce ancora a giocare?

«No. Però cerco di farlo ugualmente. Altrimenti, tutto questo non avrebbe significato».

Nelle lunghe ore d’ufficio non diventa matto?

«Un po’ sì. Infatti in stanza ho il minigolf, le freccette, Angry birds sull’iPad. E poi faccio continui giri intorno alla scrivania, anche dodici volte al giorno, e ogni scusa è buona per alzarmi e andare dalla segretaria a chiederle qualcosa. Gli appuntamenti li organizzo in stanze sempre diverse, o a piani diversi della sede, per variare. Eh sì, soffro la staticità».

Da milionario nato in una famiglia di milionari, pensava davvero di arrivare a cinquant’anni tirando la carretta e dovendo lavorare dodici ore al giorno?

«Sinceramente no. A venticinque anni mi ripetevo sempre: Ale, mi raccomando, ti fai il mazzo fino ai quarantacinque e poi molli tutto e vai a far surf dalla mattina alla sera».

E invece?

«E invece, evidentemente, sono più imprenditore che surfista. E per un imprenditore, purtroppo, il punto di sazietà non arriva mai».

Una condanna?

«Una condanna autoinflitta. Io cerco di rendermi obsoleto il più presto possibile. È l’unica molla che mi spinge a evolvere.  
E a passare velocemente ad altro».

Dida:

Il presidente

Alessandro Benetton, classe ‘64, è presidente di Benetton Group SpA, consigliere di amministrazione di Edizione Srl, società capogruppo della famiglia Benetton e Autogrill, e presidente di 21 Investimenti SpA, holding di partecipazione che ha fondato nel 1992.

Passioni forti

Sposato con Deborah Compagnoni, dalla quale ha avuto tre figli, Benetton ama surf, kite e, ovviamente, lo sci.
Pensavo: a quarantacinque anni mollo tutto e faccio surf. E invece, evidentemente, sono più imprenditore che surfista…