Andre Agassi: una giornata con il ribelle di Las Vegas

Andre Agassi: una giornata con il ribelle di Las Vegas

di Annalisa Testa

Una giornata con Andre Agassi che prima diventa ambasciatore d’eleganza Longines, poi impone regole ai ragazzini di una scuola (la sua) dove al centro di tutto c’è una scelta: il proprio futuro.

Andre Agassi ha gli occhi tristi. Forse più che tristi, malinconici. S’illuminano solo per un secondo quando, durante l’intervista, risponde al telefono come un adolescente. «Hi, baby», dice a Steffi (Graf, la moglie, il suo “privilegio”). Il suo sguardo parla di un divario, di quel conflitto tra ciò che vorrebbe fare e ciò che invece effettivamente fa, che ben descrive in quella sua autobiografia (Open. La mia storia, Einaudi) che ha ridefinito i parametri della letteratura sportiva. In quegli occhi, che sembrano persi nel vuoto in attesa di qualcosa, ma che invece catturano, analizzano e archiviano informazioni da ogni angolazione della stanza come in una complessa geometria di scambi, c’è l’essenza di tutta la sua vita.

Ha una postura scorretta, pessima direi. Cammina con passi cortissimi, le punte dei piedi rivolte verso l’interno. Colpa di un piccolo difetto della colonna vertebrale, la spondilolistesi, «una vertebra lombare ribelle che si è staccata dalle altre», che si porta dietro da quando aveva sette anni, come i capelli ta-gliati a scodella, e che le ore passate a colpire (più forte, più in fretta!) un milione di palle all’anno su campi che ribollivano cemento, hanno solo peggiorato. Primo sintomo, urlato, di un corpo che non ha mai voluto fare ciò che insistentemente gli è stato richiesto.

«Ci sono giorni in cui ho delle fitte lancinanti. E l’unica cosa che posso fare è sdraiarmi a terra, anche su un marciapiede nel bel mezzo del Nevada, infilare sotto la testa una bottiglia d’acqua e aspettare che sparisca», mi racconta, rassegnato, mente apre la porta d’ingresso della Democracy Prep Public Schools all’Andre Agassi Campus, una fortezza in mezzo al deserto, dove le luci del divertimento di Las Vegas sono parecchio lontane, dove la gente si spara per strada: «è successo mentre un giorno stavo mostrando il complesso ad alcuni visitatori». Una scuola diversa, in cui si mira all’eccellenza con un unico motto: “Work hard. Go to college. Change the world”. Questa scuola è la rivincita contro la sua (mancata) infanzia. Agassi, cresciuto da solo in una metà campo, ora accoglie più di 5mila studenti nelle scuole del Nevada, di New York, del New Jersey. Vien da ridere nel vedere che ai ragazzi è imposta una divisa, oltre a un codice del rispetto che vuole si impari a memoria. Proprio da lui, ribelle per eccellenza di fronte a tutte quelle regole imposte dai dettami aristocratici del tennis e del non-tennis. Da lui, che scendeva in campo con unghie smaltate, matita nera sugli occhi, creste multicolor, orecchini, pantaloncini di jeans, anfetamine.

E pensare che gli svizzeri della maison Longines che hanno creduto in lui e nella Andre Agassi Foundation for Education diventandone partner e sostenitori, festeggiano oggi dieci anni dal giorno in cui scelsero di arruolarlo come il proprio Ambasciatore d’Eleganza. «Io mi ribellavo alle regole perché non le capivo», si giustifica Andre. «Non me le spiegavano, me le imponevano. Diventarne allergico era una conseguenza ovvia», racconta passeggiando per la scuola. Alle pareti gigantografie di Martin Luther King, Madre Teresa, Gandhi. «Può capitare che passi di qui Shaquille O’Neal o Lance Armstrong con il cartellino visitatore al collo, che venga a trovarci Michelle Obama o che Bill Clinton tenga una conferenza di storia degli Stati Uniti».

Alcuni ragazzini sembrano non far caso a lui, altri lo riconoscono. Allora gli vanno incontro timidamente, «Hello, Mr. Agassi», e lui si scioglie in un sorriso che non s’era ancora visto. Chissà che tipo di padre è, Andre. Ma qualcosa suggerisce che tra i due genitori non sia lui quello severo.

Per tutto il giorno il ballerino da fondo campo con in curriculum 8 Slam, un oro olimpico e 101 settimane da numero uno, tiene stretto un gallone d’acqua dal quale non si separerà mai, nemmeno durante le foto di rito. S’innervosisce se qualcuno prova a levarglielo. E sorseggia mentre la gente gli parla, come a volersi togliere l’attenzione di dosso. Un tic compulsivo. Tra tanti. Ma il kid di Las Vegas, abituato a essere in cima alla catena alimentare di un ecosistema tennistico, mantiene salda quella stretta che equivale all’intensità della forza con cui impugnava il manico della racchetta quando sparava meteoriti a 145 chilometri orari.

Stringere la sua mano è come prendere una scossa che mette in azione un flashback di ricordi attraverso i suoi 1.556 match. Compreso l’ultimo. Quello del 2006 con il tedesco Benjamin Becker sull’Arthur Ashe Stadium, il centrale di Flushing Meadows. Una sconfitta che coronava la sua carriera, una standing ovation di 23 mila persone che non volevano lasciarlo andar via. Forse perché consapevoli che da quel momento il tennis non sarebbe stato più lo stesso.

«Quel giorno sul tabellone c’era scritto che avevo appena perso. Ma non c’era scritto quello che invece, nei miei 21 anni di carriera, avevo trovato», risponde sottovoce quasi a volerlo ricordare a se stesso. «Il mio tennis era cambiato, il tennis mi aveva cambiato. Un’evoluzione, necessaria. Veloce, come i meccanismi che muovono questo sport che trascrivono carattere e personalità nei colpi, nella strategia mentale, nelle caratteristiche di gioco. Il tennis è uno scontro psicologico con se stessi, prima che d’azione contro l’avversario. Questo credo che sia l’unico punto fermo che non potrà cambiare».

Nemmeno ora, gli chiedo, in un tennis fatto di muscoli e materiali hi-tech. Il talento quanto conta? «È innato, lo vedo anche nei bambini, il talento devi averlo. È facile riconoscerlo, puoi lavorarci intorno, sui colpi, sulla preparazione atletica. Ma l’incognita è l’evoluzione. L’unico suo limite è la crescita di ognuno. Anche quella mentale».

Quando parla Andre, con quella sua voce flebile, crea intorno a lui la stessa suspense che si respirava in tribuna quando l’attesa tra un punto e l’altro non era tanto finalizzata a sapere se Agassi avrebbe vinto lo scambio, ma quanto tempo impiegava per vivisezionare l’avversario. Il più in fretta possibile, possibilmente, perché per lui era necessario metter fine alla sofferenza di stare in campo. Ora, il campo da tennis, qui nella sua scuola per ragazzini del Nevada, non è stato costruito al centro di tutto. Anzi. Al centro c’è un simbolico albero della speranza. «Il nostro centro è l’educazione, perché ti dà la possibilità di scegliere e ti permette di scoprire chi sei veramente. Un’opportunità che non ho avuto. Io, da bambino, non ho avuto la possibilità di scegliere».