Dietro le quinte della pashmina jacket. Sartoriale e innovativa: la giacca destrutturata di Boglioli è come una seconda pelle, nel filato più nobile della terra

Prima viene l’odore. Una percezione che coinvolge più di dieci milioni di recettori e che dura il tempo di accorgersene: meno di cinque secondi. Poi tutto svanisce e quel profumo diventa quasi impercettibile. Ma, in quell’attimo, quando a riaffiorare sono i ricordi profondi e sopiti, la traccia nella memoria rimane. È quello che avviene entrando nello showroom Boglioli, una casa, più che un negozio. È l’odore dei tessuti. Dai cotoni alle sete fino ai cashmere e alle pashmine. Che, come un punto ricamato a mano che unisce i componenti di una giacca, si lega immediatamente al tatto. «Entrare in quella che sarà la casa Boglioli e toccare una giacca o un abito nato dalle mani dei nostri sarti è un’esperienza che coinvolgerà tutti i sensi. Stiamo progettando un luogo che accolga il cliente stimolandone non solo il tatto, componente fondamentale per la scelta di un capo, ma anche l’olfatto e la vista», spiega Giovanni Mannucci, presidente e Ad di Boglioli da un anno, alla guida di 120 persone nella produzione di 35-40 mila capispalla a stagione, cioè quasi 100 mila pezzi all’anno.

«A partire dalla ricerca dei tessuti, dalla Scozia al Giappone, dietro ogni singolo capospalla c’è una continua ricerca della perfezione, un puntiglio ossessivo, la voglia di percorrere nuove strade affrontando sfide che a volte sembrano impossibili. Nel team non mancano le idee, seppur folli. L’ultima è quella di utilizzare un tessuto che non si presta per niente al mondo sartoriale, la pashmina». Sottile, morbido, estremamente delicato durante il taglio, con lunghezze che quasi non permettono di tramarlo, la pashmina è un tessuto nobile che per essere lavorato a telaio ha bisogno di fili di seta o cotone che ne aumentino la struttura. La Pashmina Jacket, con tessuto tagliato a vivo e bottoni in metallo ramato, capo di punta della collezione estiva, è il risultato di questa ricerca da laboratorio. «È un lavoro svolto a regola d’arte, calibrato al millimetro, che può durare dai 40 ai 60 giorni. E il risultato non è mai scontato. L’unicità del nostro prodotto sta nel fatto che viene tinto solo dopo essere stato cucito. Anche se facciamo calcoli algoritmici sul risultato finale, somma di lavaggio, stiratura e finissaggio, ogni giacca può essere rimessa in discussione, stesa sul tavolo, riaperta, misurata di nuovo e, se serve, scomposta e ricucita».

La sperimentazione in casa Boglioli valica anche i confini dell’abito formale con un nuovo progetto, il tuxedo tre pezzi: «Uno smoking interamente costruito in pashmina. La nostra responsabile prodotto pensava fosse una pazzia. Il pantalone ha più punti di attrito rispetto alla giacca, la struttura interna dev’essere più solida e la ricetta di un colore degno di un black tie è stata laboriosa. Abbiamo fatto centinaia di prove prima di riuscire a dare uniformità a blu, nero e petrolio», racconta Mannucci. L’associazione tra giacca destrutturata e il nome Boglioli, infatti, è frutto di un’alchi- mia tra ricerca e abbigliamento classico. La K Jacket, come il tuxedo tre pezzi, nasce dalla volontà di segnare una discontinuità, pur senza abbandonare il know-how della storica lavorazio- ne artigianale. «Poter indossare una giacca senza alcuno sforzo, senza una spalla che ti guida, senza una tela interna che sostenga la struttura era il primo passo del cambiamento Boglioli. Adesso una nostra giacca, con quella spalla e quel fit che aderisce come una seconda pelle, non è riproducibile. Questa è diventata la nostra forza».