Da Johnny Depp a Leonardo DiCaprio, fino alle colte penne della moda: il copricapo maschile torna alla ribalta e conquista hipster, ragazzini e nuovi dandy, divenendo l’accessorio di stile del 2014

Lo vedi in testa a Andy Garcia ne Gli intoccabili, a quindici anni appena compiuti, e ti s’imprime nell’immaginazione e pensi «un giorno magari anch’io, chissà». Poi diventi grande e capiti davanti a una foto di Jovanotti o Leonardo DiCaprio coi loro «pork pie» in paglietta e nastrini e dici «be’, loro sì che se lo possono permettere». Quindi spunta Bruno Mars nel suo metro e sessanta, che a vent’anni si esibisce agli Mtv Music Awards con un trilby di raso grigio e piuma di gallo e realizzi che «non è mica una roba da vecchietti questa, allora». Fino alla fedora a tese strette di Jude Law e quella a tese larghe di Johnny Depp, con tanto di finto buco di proiettile in mezzo alla fronte, e arrivi a convincerti che ok, allora c’è un cappello per tutti, anche per te.

È proprio la generazione nata negli anni Settanta, quella presuntamente in crisi d’identità di genere e a corto di senso del ruolo, a decretare il nuovo successo dell’accessorio maschile più teatrale e trasformante. Quello che non si può portare «con sublime indifferenza», come consiglia lo scrittore e studioso del dandysmo Giuseppe Scaraffia riferendosi ad altri accessori ritrovati come i panciotti a doppio petto o le ghette o la boutonnière, ma «al contrario va calzato con cura, ben calato sulla fronte, da riportare una volta all’anno dal cappellaio per lavarlo e farlo stirare, e magari ogni tanto sostituirgli il nastro esterno col colore che si preferisce, ma mai troppo a contrasto».

Cappello che non rappresenta più un demarcatore di stato sociale, ovviamente, ma qualcosa di più individuale. Linda Pagan, proprietaria di The Hat Shop a New York, spiega: «I cappelli sono come maschere. E la gente tende a divertirsi di più, con indosso le maschere». Contemporaneamente, però, si perde discernimento e senso delle occasioni: il cappello giusto da indossare in campagna, quello da sera o da mezzasera o da funerale, nessuno sa più distinguere quale sia. Solo per i matrimoni difficilmente ci si sbaglia, visto che il cappello giusto è sempre il cilindro, da scegliere grigio per il pomeriggio e nero per la sera. «Capita di frequente che vengano a chiedermi pana- ma bianchi in pieno inverno» si stupisce Annamaria Carozzi, proprietaria della storica cappel- leria Viarani di Torino, che con altrettanta sorpresa racconta di come abbia ricominciato a ven- dere alcuni pezzi che temeva consegnati al macero dell’oblio: «I più giovani chiedono la lobbia, detta anche rolè o diplomatico, con l’ala rialzata e la conca cen- trale (la vaga) in stile Winston Churchill. Oppure la bombetta, amatissima anche dalle ragazze. Mi son segnata il nome: dicono che fa molto steampunk».

Dove per steampunk s’intende un movimento estetico diffuso in tutto il mondo e legato alla Londra vittoriana, in particolare all’invenzione della macchina a vapore e delle prime tecnologie, protagonista di romanzi di fantascienza e portato sul grande schermo dallo Sherlock Holmes di Robert Downey Jr. Che nel film non dimentica mai di togliere il cappello di fronte a una gentile signora inguantata. Mentre oggi, i trenta-quarantenni con la fedora in capo non se la levano neppure al ristorante e tantomeno alle fe- ste, a indicare una scelta di stile precisa e vissuta, per quanto un po’ incolta, chissà se volutamente oppure no.

Il cappello in testa se lo mettono eccome, insomma, ma l’ideologia che si porta dietro la lasciano nell’armadio: «Ormai s’indossa per passione, non per convenzione» dice lo stilista londinese Noel Stewart, fondatore del marchio omonimo e da poco nominato direttore artistico del cappellificio Christy’s, tra i più importanti del mondo, «e se nevendono sempre di più proprio per questo: l’uomo si sente libero di esprimere se stesso. E per farlo, ha capito che non c’è nulla che più del cappello sia in grado di condizionare in maniera tanto netta il modo in cui gli altri ti percepiscono».

Non potrebbe essere più d’accordo Godfrey Deeny, il più innamorato tra i giornalisti di moda europei, editor-at-large del quotidiano francese Le Figaro ed editorialista di Icon e Flair: «Se non ne cambio almeno tre a settimana, non mi sento vestito» dice, fornendo poi la sua personale agenda riguardo al quando, il come, il chi e il perché: «Per una cena al ristorante Semilla di Parigi, in compagnia di una splendida donna dai capelli rossi, sceglierei una fedora di Dior Homme, senza dubbio. Per una passeggiata lungo la Senna, il sabato pomeriggio al brunch, il mezzo cilindro dall’aria intellettuale disegnato da Alessandro Sartori per Berluti. Mentre il lunedì, per il ritorno al lavoro, un gessato con bombetta marrone».

Un accessorio per camminatori. Che torna proprio nel momento in cui diminuiscono le auto. Per città da car sharing e metro. Del resto, lo teorizza non senza ironia Maurizio Romiti, figlio del Cesare storico amministratore delegato Fiat, che sia stato l’avvento dell’automobile utilitaria con le sue terribili cubature antigentiluomo a uccidere per anni il maschio e il suo copricapo. E forse è una forma di riparazione o contrappasso se tramite la holding di famiglia, la Polluce, i Romiti abbiano rilevato quote dello storico cappellificio Barbisio di Biella e Maurizio Romiti ne sia diventato presidente. Marchio che si rilancia accanto a Cambiaghi, sotto la guida del giovane Matteo Perego di Cremnago, che a sua volta si posiziona accanto ad altri rampanti trentenni come Federica Moretti, che col suo marchio Handmade vende già in cinquanta negozi sparsi per il mondo: «Sono partita coi copricapo da donna. Ora, i cappelli da uomo sono diventati così belli che li devo disegnare unisex, visto che le ragazze ne vanno matte». Copricapo modellati a vapore nel distretto artigiano di Monza, su forme di legno, timbrati a mano all’interno e con feltri in pelo di cervo, lepre e nutria. «Ho anche reintrodotto la “virgola”, un nastro che si fissa all’asola del cappotto per non fare volar via il cappello alla prima folata di vento. Per i quarantenni, che sono i miei clienti principali, questi particolari fanno la differenza».