È una star annunciata. A fine anno scoccherà la freccia nel secondo Hobbit e il gioco sarà fatto. Esaltante? Forse. Ma Luke Evans è un vulcano giudizioso, dai desideri contenuti, che ama camminare in montagna e pescare i kahawai.

Incontrare Luke Evans è un po’ come salire su un vulcano attivo sicuri di un’eruzione imminente. Il fuoco è già tutto lì, tuona in profondità e abbaglia in superficie, ti permette un graduale avvicinamento ma allo stesso tempo fa capire che è meglio non esagerare, ognuno al proprio posto, affinché nessuno si faccia male.
Molto ruvido ed estremamente fascinoso, lontanissimo da ogni ammiccamento culturale di genere, Evans vive come sospeso e in attesa, nella certezza che presto nulla sarà più come prima. Allo scoccare del 13 dicembre 2013, a 34 anni compiuti, diventerà una star: arco e faretra in spalla, capelli lunghi e bella faccia da gallese cresciuto a pane arte e sbronze, sarà Bard L’Arciere nella seconda parte della nuova trilogia di Peter Jackson: Lo Hobbit, la desolazione di Smaug. Toccherà a lui diventare icona dei fan scoccando la freccia nera che ucciderà il drago. Come sarà, da quel momento, compito suo far girare al meglio una popolarità arrivata in fretta: il primo film al cinema è soltanto di tre anni fa, dopo una gavetta decennale a recitare e cantare nei musical del West-end londinese, prima Apollo in Scontro tra titani e poi Zeus in Immortals, Aramis ne I tre moschettieri e giovane romantico in Tamara Drewe di Stephen Frears. Con un sogno che osa dire solo a bassa voce: «Essere protagonista, un giorno, di un grande musical a Broadway».

I tuoi canini sembrano quelli di un vampiro. Te l’hanno mai detto?
«È vero. Ma non posso farci nulla, tutti gli uomini della mia famiglia li hanno così».

Lo trovi un particolare sexy?
«Di certo non ho intenzione di sistemarli, nonostante le continue offerte del dentista. C’è persino gente che si complimenta, convinta che me li sia fatti di proposito.»

Se fossi un vampiro cosa ci faresti con l’immortalità?
«Smetterei d’aver fretta, di sicuro. E la pianterei d’accendere il telefonino come primo gesto della giornata».

Con chi ti piacerebbe condividerla, l’eternità?
«Con mio nonno».

Ti capitano mai momenti in cui ti senti forte come un dio?
«È una sensazione che mi regala il lavoro, ultimamente. Quando ottengo una parte per cui ho lottato, quando m’accorgo che una scena è venuta bene, quando viaggio. Tutte cose che mi fanno sentire molto, molto potente».

Qual è il luogo a cui senti d’appartenere completamente?
«Casa mia a Londra, nell’East-end, piena d’arte. Ho cominciato a interessarmene durante le riprese di Tamara Drewe. Come location utilizzavamo il cottage di un artista nella campagna nel Dorset e un giorno gli ho comprato due quadri, intitolati Coins e Faces. Poi ho fatto lo stesso a New Orleans e in Nuova Zelanda, dove mi son fatto realizzare alcune splendide maschere dagli artigiani che lavorano alle armature di The Hobbit».

La vita bohemienne del West-end non ti manca?
«Sinceramente no. Però mi mancano le relazioni forti che si creavano tra gli attori, il fatto di stare insieme per mesi, andare in scena tutte le sere, ritrovarsi tardi nello stesso ristorante. Il cinema, purtroppo, non funziona così».

(il testo integrale dell’intervista è su Icon n. 9, in edicola dal 4 aprile)

Foto Jem Mitchell

Testo Raffaele Panizza

Stylist Mark McMahon

Hair & Grooming by Johnnie Sapong @ Jed Root using Phyto and Dr Hauschka; assisted by Terri Capon

Photo assistant Gareth Horton and Rob Willey
Stylist assistant Ben Goodyear.