Parla il regista premio Oscar per la sceneggiatura di “Her”: essere se stessi senza essere avulsi dal proprio tempo

Immaginarselo come skater non è difficile. Spettinato, camicia bianca fuori dai jeans e sneakers, Spike Jonze sembra ancora il ragazzino che negli anni Ottanta a Rockeville, nel Maryland, sfrecciava sulla tavola scattando foto. Ma è con il video Blind-Video Days, 20 minuti di skateboard suburbano finiti nelle mani di Kim Gordon dei Sonic Youth, che la vita di Adam Spiegel (è questo il suo vero nome) cambia. Negli anni Novanta approda a Mtv con video indie rock, mentre dirige la cult zine Dirt (sottotitolata “carburante per giovani uomini”), dalle cui pagine le sue foto arrivano ai Beastie Boys: ed è subito intesa, con il video di Sabotage. Di lì in avanti, Jonze lavorerà con i R.E.M., Bjork, Daft Punk, diventando il regista di videoclip più ricercato al mondo. Fino al matrimonio con Sofia Coppola.

Che gli farà passare dal padre Francis Ford la sceneggiatura di Essere John Malkovich, consacrandolo regista di culto. Appena conquistata la fama, però, Jonze inizia a esprimere solitudine e frustrazione. A partire da Ladro di Orchidee, dedicato al tema del doppio e alla paura di perdersi. Il matrimonio con la Coppola, d’altronde, è finito. E anche la storia con Karen O. degli Yeah Yeah Yeahs. Occhi brillanti e rossore facile, oggi Jonze fa muro se forzi la sua tana. E non a caso, con Lei, vincitore di un Golden Globe, nelle sale italiane dal 13 marzo, racconta una storia d’amore tra un uomo e un operative system.

C’è qualcosa di suo nel protagonista?
Molto. Il film parla della difficoltà di entrare in relazione con gli altri, argomento che conosco bene.

Crede nei rapporti virtuali?
Sì, ritengo scatenino emozioni autentiche, sebbene spesso illusorie. Attraverso Snapchat, Tinder, entro spesso in contatto con la vita di persone che non conosco. E mi lascio coinvolgere. Ma dietro la mia risposta non ci sono io, solo la maschera che indosso.

Tutta colpa della tecnologia?
La tecnologia c’entra. Ma fino a un certo punto… Di una maschera di protezione non si può fare a meno: ora, per esempio, sto indossando quella del regista che cerca di dare risposte intelligenti.

Parla con difficoltà di sé?
Sì, parlare delle mie emozioni mi mette a disagio. Quando ero bambino, avevo l’impressione che non mi spiegassero mai niente. E il poco che capivo lo ricavavo dalle reazioni delle persone, mai dalle loro parole. Così tutto mi sembrava fuori controllo. Mi faceva paura. E me ne fa tutt’ora.

Nel film Nel paese delle creature selvagge sembrava parlare della sua solitudine.
Storia passata. In questo momento non mi sento solo. Ma la solitudine fa parte della vita. La sfida è conviverci. L’unico modo per farcela è non cercare di evitarla, perché non è un sentimento che svanisce per il solo fatto di cercare un contatto con gli altri.

Il telefonino aiuta?
Il mio, a esser sincero, lo controllo ossessivamente. Se penso alla quantità di e-mail che riceviamo ogni giorno, e alla tensione con cui attendiamo le risposte, mi viene da dire che di una cosa abbiamo assolutamente bisogno: poter dire in ogni istante a noi stessi: “Ok, qualcuno mi sta pensando!.

Non teme d’illudersi?
La cosa più difficile è restare vulnerabili verso noi stessi e le persone che amiamo, ma rimanendo liberi. Come si fa a lasciare all’altro la libertà di essere come è? Saremo capaci di amarci anche domani? Queste sono domande che fanno paura, è vero. Ma attraverso la sofferenza si guarisce. A me è successo. E se è successo a me, tutti possono sperare. (Ride)

La sua arte ruota attorno a una Los Angeles da sogno. Il lusso consola?
Ho pensato a una città del futuro. M’è venuta in mente una Los Angeles estremamente confortevole, in cui tutto è facile e bello, non molto lontana dalla realtà. Certo, una bella metropolitana aiuterebbe… un po’ sopraelevata, magari. D’altronde, il mondo è alla disperata ricerca di comfort.