“Io, sedotto da cinema e regia”. Intervista a Matt Dillon
Courtesy of Mike Coppola/Getty Images

“Io, sedotto da cinema e regia”. Intervista a Matt Dillon

di Andrea Giordano

A tu per tu con Matt Dillon, ospite all’ultimo Ora! Fest, e tra gli interpreti del nuovo film di Wes Anderson, Asteroid City, passato al Festival di Cannes

Matt Dillon, l’ex ‘maledetto’ del cinema americano, oggi, navigando verso un compleanno tondo, 60 anni l’anno prossimo, è invece un ‘outisider’ maggiormente consapevole del proprio destino d’interprete. Cambia e varia, torna a seguire il flusso di progetti (anche brillanti), come lo erano stati Tutti pazzi per Mary ad esempio (un grande successo) o In&Out, avventurandosi, recentemente, anche nel mondo di Wes Anderson, in Asteroid City, visto all’ultimo Festival di Cannes e che uscirà il 14 settembre distribuito da Universal Pictures. Un nuovo progetto corale, quello creato dal regista di The Grand Budapest Hotel e The French Dispatch, nel quale riveste il ruolo di un meccanico, sperduto in una città-illusione scenica, nella quale tanti personaggi (come accade di solito) si intrecciano e animano l’orizzonte, facendo capolino in piccole, grandi, comparsate, ma mettendosi in primis al servizio di un cineasta visionario e tra i più creativi in circolazione. Dillon è fra questi. Quando lo incontriamo, alla prima edizione dell’Ora! Fest, diretto da Silvia Bizio, è nella suggestiva cornice di Monopoli, in Puglia, invitato tra gli ospiti d’eccezione. E a conquistare è il suo modo di raccontarsi, lontano da divismi, avvolto da una normalità sorprendente.

Iniziamo da Wes Anderson: come possiamo definirlo in una parola?

Ne servono tante. Ha una mente brillante, un cuore davvero grande, è unico, attento ad ogni dettaglio. Penso sia uno dei pochi registi che possiamo annoverare tra i geni del cinema contemporaneo.

Una carriera, quella di Dillon, iniziata nel 1979 in Giovani Guerrieri, ma che è riuscita a travalicare alcuni stereotipi, che avrebbero potuto incasellarlo in una semplice estetica. Ruoli determinanti, come in Crash – Contatto fisico di Paul Haggis, in cui era un poliziotto razzista in cerca di redenzione (per cui ricevette nel 2004 l’unica ad oggi nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista), o come ne La casa di Jack di Lars von Trier, nei panni di un serial killer psicopatico. Ambizioso, al punto di inseguire un proprio sogno, diventare regista. Ce l’ha fatta, realizzando e sceneggiando nel 2002 City of Ghosts, e qualche anno fa, registrando  un bel documentaro, dedicato al musicista cubano Francisco Fellove dal titolo El gran Fellove, ritrovabile oggi sulle diverse piattaforme. Un omaggio a delle sonorità, il jazz, che lo stesso attore ama e coltiva da sempre da buon collezionista di vinili.  

Quest’anno cade invece un anniversario particolare, i 40 anni di due titoli entrati nell’immaginario, Rusty il selvaggio e I ragazzi della 56ª strada, diretti da Francis Ford Coppola. Che viaggio è stato da allora?

Incredibile. Questa è la seduzione del cinema, è l’immortalità di tutto. Tra 500 anni la gente parlerà ancora di Buster Keaton, come di Beethoven. Lo credevo mentre li stavo facendo, seppur fossi un ragazzo, ma speravo di poter avere una parte nella storia di questo linguaggio.

Che valore ha per lei recitare?

L’industria cambia e così il mio rapporto con la recitazione. Mi viene naturale. Ma penso anche che quello che può succedere, a volte, è che se da un lato riesci a sviluppare una tecnica davvero importante, dall’altro puoi anche dimenticartela quando crei dei personaggi. E questo è davvero ciò che è importante per me, essere sincero. Nella recitazione mentiamo, ma in un modo onesto e che ha senso. L’emozione deve provenire da qualcosa che è reale, ma anche no. Potremmo discuterne a lungo di questo. Mi annoio se devo fare sempre la stessa cosa, dunque sento la necessità di trovare sempre di più diverse opportunità e progetti.

Iniziare a dirigere è stato però un passo importante.

Dietro la macchina da presa ho scoperto un po’ la mia voce. Penso che a volte quando fai un lavoro personale, è come se stessi ponendoti una domanda, ed il film è la risposta a quella domanda. City of Ghosts è stata un’esperienza, un viaggio. Voglio continuare in questa direzione. La cosa bella dell’essere della recitazione è che hai la libertà di fare diversi tipi di cose, diventi persone diverse, sei creativo. Ma se scegli di dirigere non devi semplicemente andare a cercare il tuo prossimo lavoro, lo devi coltivare, scrivere, produrre. Il rovescio della medaglia è che la gente pensa a me solo come attore, e non mi considerano come un regista.

La infastidisce che qualcuno la pensi in questo modo?

Sì, perché penso di essere un filmmaker e lo difendo. Ho alle spalle tante collaborazioni importanti, Wes Anderson, Lars von Trier, ognuna soddisfa un tipo di desiderio nel far parte della realizzazione di un connubio, che a qualcuno potrebbe non piacere, ovvero quello tra film e arte. 

Una delle prossime sfide si chiama High Desert, serie targata Apple.

L’aspetto positivo qui è che potevo lasciare che il mio personaggio si sviluppasse per un periodo di tempo più lungo e in maniera maggiormente ricca. Ci sono tanti motivi per cui ho detto sì, il regista, Jay Roach, molto talentuoso ed esperto, la possibilità di lavorare con un’ attrice come Patricia Arquette, gli stessi showrunner. Ciò che contava erano le persone, non la trama, non la storia, ma appunto i personaggi, è una serie che racconta di rinascite e di decisioni che possono cambiare una vita.

Nel 2024 compirà 60 anni. 

Non mi importa molto dei compleanni, o dei numeri, non li guardo. Preferisco entusiasmarmi di ciò che ho fatto, come City of Ghosts, che rimane impresso nella mia mente. Ho avuto successo in tanti livelli, personali e professionali, ma quel film è stata la cosa di cui sono più orgoglioso.

Nessun rimpianto allora?

No, al contrario. Il mio unico rimpianto è non essermi messo a ripensare ad un film da regista. Adoro lavorare con gli altri, sentire il set, se non posso però collaborare con registi di talento, e aiutarli a realizzare la loro visione, allora voglio farlo da solo. Non voglio vendere solo un prodotto, preferisco fare qualcosa per conto mio. A volte se fai parte di questo business vai, ti presenti e fai la tua parte, ma a volte non basta, devi tirare fuori qualcosa di meglio.