Siamo tutti degli ibridi tecnologici: le macchine hanno vinto!
Jordan Wolfson, Colored Sculpture, (2016). Image courtesy of Stedelijk.

Siamo tutti degli ibridi tecnologici: le macchine hanno vinto!

di Elena Bordignon

Immaginare il rapporto tra l’uomo e le macchine: dal best seller del veterano Harry Parker alle opere d’arte nate dall’incontro tra umano e tecnologia

Le ‘macchine’ ci contano i passi, ci mettono a dieta, ci svegliano e ci fanno dormire; ci tengono il tempo, ce lo guastano e ci fanno guadagnare. Affetti, relazioni, lavoro sono tutte impostati con la tecnologia, che sia sotto forma di smart watch, di tablet, computer o payTV. Non tralasciamo i social, a cui deleghiamo appuntamenti, scoperte ed esperienze (virtuali!). Il network regola e pianifica le nostre giornate, gestisce le nostre relazioni e detta la visione dei nostri film in streaming.. Insomma non abbiamo scampo, le ‘macchine’ ci hanno resi degli esseri ibridi, quasi inefficienti se, malauguratamente, ci troviamo senza wifi per un paio d’ore. Le ‘protesi’ tecnologiche sono diventate vitali per potenziare le nostre capacità, i nostri interessi e, anche se non siamo così istruiti come facciamo credere, suppliscono appunto le nostre lacune e mancanze. Non senza preoccupazione, possiamo dire che la pellicola che divide la vita reale da quella virtuale si è incredibilmente assottigliata. 
E’ da poco uscito in libreria un libro illuminante di un veterano, ex capitano dell’esercito britannico, Harry Parker, Umani ibridi. Come la tecnologia cambia il nostro corpo (edito da SUR). Diventato un best seller nel Regno Unito, in questo libro Parker ci racconta come attraverso la disabilità possiamo vedere con fiducia e ottimismo il rapporto tra l’uomo e le macchine. Bisogna sottolineare che Parker, dopo un incidente in Afganistan nel 2009, cammina indossando due speciali protesi che lo hanno reso un innesto fra biologia e software. Il suo corpo è diventato, dunque un ‘marchingegno’ high-tech che inevitabilmente lo ha condizionato e reso estremamente sensibile a tutto ciò che, quotidianamente, utilizziamo per vivere.

Le riflessioni di Parker si ritrovano anche in molte ricerche di artisti contemporanei che hanno approfondito, appunto, la relazione tra il corpo e le macchine. Soprattutto dalla fine degli anni ’60, molti artisti hanno esplorato e utilizzato le tecnologie protesiche sia per fare ironia sull’umanità sia per approfondire le relazioni tra la tecnologia e il corpo umano. Tra le antesignane c’è sicuramente l’artista tedesca Rebecca Horn (1944) che ha iniziato a realizzare quelle che lei chiamava ‘sculture del corpo’: protesi e maschere che estendono e restringono il corpo. Tra le opere più significative Arm Extensions (1968), una scultura che fascia il corpo e fa raschiare il pavimento con gli arti superiori; Pencil Mask (1972) che consente di disegnare con il viso, graffiando entrambe le pareti contemporaneamente.
Anche l’artista cipriota Stelarc (1946) ha fatto del connubio uomo-macchina una delle sue peculiarità. Da sempre l’artista lavora sull’artificialità del corpo intesa come territorio di sperimentazione e mezzo con cui mettere alla prova e testare i limiti della componente organica del nostro corpo. La tecnologia è vista come mezzo per amplificare l’azione corporea ed arrivare alla costruzione di un “organismo nuovo”, un cybercorpo, che può allargare l’area dell’esperienza e aprire la strada verso possibilità insperate. Sulla stessa lunghezza d’onda possiamo citare anche le sperimentazioni di Orlan (antesignana degli eccessi della chirurgia estetica che diventano protesi mostruose) e l’immaginario post-umano di Mattew Barney, soprattutto nella saga Cremaster, dove ha approfondito il tema dell’innesto tra corpo e macchina. 

Se ci allarghiamo al post-umano, possiamo citare le immagini provocatorie e allucinate di Cindy Sherman e gli automi splatter di Paul McCarthy, per giungere al corpo fatto a pezzi di Robert Gober: nei suoi lavori Gober evoca il corpo soprattutto attraverso la sua scomparsa e questa pratica raggiunge il suo apice nei senza titolo, che rappresentano parti anatomiche completamente decontestualizzate. 
Tra gli artisti più giovani, invece, un nome su tutti è quello di Jordan Wolfson che con i suoi robot da milioni di dollari, ha conquistato le più importanti gallerie e istituzioni del mondo. La sua installazione Female Figure del 2014 resta tra le opere più inquietanti e iconiche degli ultimi decenni, ma potremmo citare anche il malefico burattino gigante dell’installazione’Colored Sculpture’ (2016). 
Sempre tra gli artisti di ultima generazione, citiamo la coppia degli artisti concettuali cinesi Sun Yuan e Peng Yu che nel 2026 hanno presentato al Museo Guggenheim di NY l’installazione Can’t Help Myself, posizionando un robot industriale con un braccio robotico e con sensori visivi dietro una parete di vetro acrilico, programmato per tentare all’infinito di spazzare un liquido viscoso simile al sangue che continuava a fuoriuscire attorno alla sua base.