Toby Jones: “Il segreto di un attore? Non smettere mai di giocare”
Foto: Richard Blanshard/Getty Images

Toby Jones: “Il segreto di un attore? Non smettere mai di giocare”

di Andrea Giordano

Toby Jones, attore inglese, è ormai diventato uno di quei volti irrinunciabili del cinema e teatro, da Mike Leigh a Woody Allen, fino a Matteo Garrone. Ospite all’ultimo Filming Italy Sardegna Festival, dov’è stato celebrato con un premio per la carriera, adesso si proietta in nuovi progetti, tra cui una serie Marvel, “What if..?” ancora top secret.

Il suo volto è uno di quelli che non passa mai inosservato, troppo riconoscibile, troppo bravo, cambia poco se il ruolo è breve o lungo, lui, a far la differenza, è sempre protagonista. Toby Jones è uno di quegli interpreti rassicuranti, di conferma e necessità, cui molti registi e autori si rivolgono, proprio per dare spessore a certe storie e personaggi. La lista dei lavori sembra interminabile, a partire dal debutto, nel 1992, in Orlando di Sally Potter: da lì ha lavorato con Mike Leigh (Naked), Billie August, Luc Besson (Giovanna D’Arco), Stephen Frears, Woody Allen (Scoop), Peter Greenaway, Ron Howard (Frost/Nixon) Oliver Stone (W). Per l’attore londinese tanto cinema, teatro (insieme a Kenneth Branagh), doppiaggio, e pure l’entrata nell’universo Marvel, nei panni, da villain, del Dottor. Arnim Zola (Captain America), un personaggio che riprenderà a breve, di Hunger Games, fino allo splendido re di Altomonte, ne Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Nel carnet personale è stato scrittore (uno splendido Truman Capote in Infamous – Una pessima reputazione), regista, cattivo, capo dei servizi segreti (ne La talpa, tratto dal romanzo di le Carrè), giornalista, talent agent, ma quando lo incontriamo, al recente Filming Italy Sardegna Festival, diretto da Tiziana Rocca, dov’è stato celebrato, ci svela un segreto: “recitare, in fondo, è un grande gioco”.

Il fatto di essere cresciuto in un ambiente di artisti (il padre era Freddy Jones, la madre Jeanne Heslewood, ndr) come l’ha influenzata?
Quando ero più giovane, mi dicevo “non farò mai questo lavoro”, poi però sono passato attraverso varie riflessioni. È dura quando cresci e vedi questo mondo dall’esterno, pensi che sia simile a quello dei bambini, ma non nel senso infantile del termine. Da qui sono uscite tante considerazioni, e la decisione di sviluppare una professionalità e carriera senza tradire la mia identità. Rimane comunque una professione di grande appeal.

Nella sua vita qual è stato il suo incontro più significativo?
Devo prendermi del tempo per pensarci… perché ritengo che gli incontri più importanti che facciamo sono quelli che avvengono con i nostri insegnanti, con tutti coloro che sono in grado di stimolarci delle idee, di ispirarci, di farci sognare in qualche modo. Un buon insegnante rappresenta qualcosa per ognuno di noi e il rapporto che si instaura è capace di cambiare il tuo modo di lavorare. Ad esempio io ho studiato a Parigi, nella scuola di Jacques LecoqL’École Internationale de Théâtre: lì ebbi modo di conoscerlo, mentre la mia famiglia, al contrario, non lo ha fatto, in termini di formazione. Quello che mi piace della recitazione è la praticità, questa risiede nel fatto di essere soprattutto curiosi, aperti al mondo, e le assicuro che si trova sempre qualcosa di buono, anche nelle esperienze negative.

Lei ha interpretato anche Truman Capote e Alfred Hitchcock (in The Girl, ndr), nessun timore all’inizio?
Cerco di non ripetermi, per me avere paura è una cosa positiva, fa parte del meccanismo, ti dà l’adrenalina giusta per fare meglio, e nel mio caso per entrare nei personaggi. Il motto è continuare ad andare avanti, a scoprire, rimanere interessati, e non sedersi sugli allori, io mi ritengo fortunato nel non sapere cosa accadrà dietro l’angolo, preferisco essere sorpreso da qualcosa di inaspettato.

Tra i suoi prossimi progetti c’è anche la serie What if…?, cosa può dire?
Dovrei tapparmi la bocca! Ad un certo punto i produttori della Marvel mi hanno bussato alla porta, chiedendomi se potevo registrare alcune voci e interagire con gli effetti speciali, lo ritenevo impossibile, e invece la bellezza delle situazioni sta proprio nel senso avventuroso a cui spesso siamo esposti come interpreti. Sarà una serie meta-meta, va oltre quello che noi possiamo immaginare, e credo potrà cambiare l’attitudine nel genere. L’anno prossimo, in ogni caso, farò un film con uno dei miei registi preferiti, non le dico il nome, sono troppo superstizioso (ride, ndr), ma a breve riprenderò, invece, Zio Vanja. Avevo anche scritto una serie tv, ma è stata cancellata a causa delle perdite economiche dovute al Covid: purtroppo quello che è accaduto, ed è ancora in atto, ci ha fatto riflettere, io stesso non smetto di farmi delle domande.

Del tipo?
Che fine farà l’energia di gruppo che si crea nelle sale, negli spettacoli dal vivo? Questo mi preoccupa. Un conto è vedere dei prodotti in streaming, un altro è andare lì, vivere le emozioni in prima persona, chissà forse nasceranno nuove forme di fruizioni del mezzo, si potrebbe ragionare su un teatro a distanza, o da vedere attraverso un binocolo, sono idee, immagini, difficili da realizzare anche per problemi di assicurazione. In Inghilterra, dove vivo, a volte mi chiedo se ci saranno ancora attori di 70 anni che potranno essere sul palco, cosa ne sarà di loro. Eppure voglio essere fiducioso: il cinema troverà una soluzione per inventare nuovi modi.

Cosa significa nel profondo essere attore?
Il mio lavoro prevede la recitazione e questo mi porta a fare grande ricerca, mi fa sentire più giovane. Amo studiare, cercare qualcosa che non so, andare oltre quello che vedo in superficie, essere pagato per essere curioso penso sia una grande fortuna. Mi chiedo, però, se i miei figli un giorno diranno, guardando il padre “ah il solito vecchio attore che si lamenta”, ecco no, io vorrei rimanere sempre vicino a questa sensazione di gioco, di infanzia, senza però risultare infantile, e potendomi permettere il lusso di continuare a crescere.