Le passioni, i punti fermi e gli insegnamenti del patron dell’Ilario Vinciguerra Restaurant, membro stellato dei Giovani Ristoratori d’Europa

Non fosse stato per la mamma, chef Ilario Vinciguerra sarebbe diventato carabiniere. La vita ha poi preso una strada diversa, ma le soddisfazioni sono state comunque grandi: è infatti membro dei Giovani Ristoratori d’Europa e patron dell’Ilario Vinciguerra Restaurant, ricavato all’interno di un’elegante villa in stile liberty nel centro di Gallarate (VA) e confermato fra gli stellati Michelin nella guida del 2014.

Ma perché i carabinieri? A parte ‘il fascino della divisa’, la vera discriminante è che ‘mi piaceva molto viaggiare. Però mia madre era preoccupata e allora ho scelto la scuola alberghiera’. Inizialmente ‘la cucina doveva essere solo un mezzo per vedere posti nuovi e fare un po’ di esperienza per poi diventare direttore d’albergo’. Effettivamente, la voglia di girare il mondo è stata soddisfatta (‘Sono stato in America, Giappone, Francia’), ma l’aspetto importante è che a un certo punto ‘la cucina mi ha preso e non sono più uscito da lì’.

Tra le varie tappe della sua crescita professionale, una in particolare è rimasta nel cuore di chef Vinciguerra, quella presso il Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui Due Golfi (NA): ‘Io faccio una cucina mediterranea e creativa, e Don Alfonso già a quei tempi – erano gli anni fra il 1995 e il 1998 – parlava della dieta mediterranea, della materia prima della nostra terra. È stato un apripista’.

Scendendo nei particolari, si scopre la passione assoluta per l’olio extravergine d’oliva: ‘È alla base della mia cucina, che è senza burro e senza panna, ad eccezione ovviamente della pasticceria. Per esempio, in questi anni ho creato un risotto mantecato solo con l’olio, che è molto leggero e ha un gusto molto interessante. E poi, l’extravergine d’oliva ha una qualità importantissima: esalta la materia prima. La mia cucina è fatta con pochi ingredienti d’eccellenza e il segreto sta proprio nel valorizzarli’.

L’altro elemento cui chef Vinciguerra tiene in modo particolare è la terna rappresentata da pane, pasta e pasticceria, tutti rigorosamente fatti in casa: ‘Se compro il pane dal panettiere e il cliente mi dice che è buono, per me è quasi un’offesa perché non l’ho fatto io’. Come gestire però i ritmi di lavoro, considerato anche che il primo piano della villa è dedicato a una cucina tradizionale napoletana di qualità a costi contenuti? ‘Ci organizziamo e facciamo delle scelte. Piuttosto che preparare otto tipi di pane, cracker, grissini e tutto, scegliamo un solo tipo di pane in bianco, ma comunque fatto in casa, con il lievito naturale e tutti i crismi’.

È un’organizzazione del lavoro, e un tipo di cucina, di cui fanno tesoro i giovani dietro ai fornelli del ristorante. Ilario Vinciguerra ha infatti un occhio particolare per l’insegnamento: ‘È fondamentale aiutare i giovani italiani, perché noi abbiamo una cultura del cibo importante, che il nostro paese non può perdere. Da Nord a Sud le cucine sono diversissime tra loro, ma con una base comune di valore. Per esempio, a Napoli da un palazzo all’altro la pastiera è completamente diversa e questo è impagabile. Va benissimo l’Unione Europea, ma la nostra identità bisogna preservarla assolutamente, costi quel che costi’.

Ciò non significa chiudersi agli spunti che giungono dall’estero: ‘Ultimamente stiamo provando dei piatti con le meduse. Però non faccio un piatto giapponese, per esempio un sushi: faccio lo spaghetto col pomodoro del Piennolo e la medusa sopra. Cioè porto un ingrediente o un concetto di una cucina straniera nella nostra cucina. Se uno è all’estero e vuole la bolognese deve declinarla per quel tipo di paese. E come si fa? Eh, a questo servono gli chef’.

Un altro dei concetti che stanno a cuore a chef Vinciguerra è che ‘noi prepariamo qualcosa che entra all’interno delle persone’. Può sembrare scontato, ma ‘è qualcosa di profondo. Quando andiamo a mangiare nelle catene è perché non diamo valore a questo gesto, al fatto che ci sono persone che magari non abbiamo mai incontrato e che preparano qualcosa che noi introduciamo nel nostro corpo. Quando i ragazzi lo capiscono, allora si appassionano al lavoro’.

Certo, durante la formazione possono capitare momenti di sconforto, ‘per il numero di ore di lavoro e per i sacrifici necessari. Se qualcuno è in difficoltà lo incoraggiamo, lo aiutiamo, lo portiamo fuori a bere una birra. E se capisce che comunque questo non è il suo percorso, mi dispiace’.

L’optimun sarebbe vedere i giovani che apprendono quel che possono e poi vanno incontro a una nuova esperienza: ‘Lo scopo finale è farli diventare tutti bravi chef e un cuoco che resta dieci anni in un ristorante non è un cuoco completo. Uno che passa cinque ristoranti in dieci anni può esserlo, perché ha visto cinque tecniche completamente diverse e da queste può estrapolare la sua. Non è il tempo trascorso nello stesso posto che dà valore al cuoco, anzi’.