Un presente all’insegna del farmer chef e uno sguardo sul possibile futuro della ristorazione

Vulcanico: è questo il primo aggettivo che viene in mente dopo 40 minuti di chiacchierata con Antonello Colonna, 58 anni, esperienza da vendere, patron chef di un ristorante stellato romano che porta il suo nome e di un secondo ristorante, a Labico, fuori Roma, che porta anch’esso il suo nome e vanta pure lui una stella (‘ricevuta dopo sei mesi dall’apertura’).

Colonna è uno che dice, ridendo, ‘non chiedermi qual è il mio piatto preferito perché ti riattacco il telefono’. E che, guascone fino al midollo, ammette che gli ‘piace sfidare il mondo‘. Come quella volta, ‘negli anni Duemila, che sembrava fosse obbligatorio mangiare sushi altrimenti non eri fico’: e allora organizza un evento in Piazza Colonna, con ‘dieci cuochi giapponesi che fanno il sushi e dieci cuochi romani che cucinano il cacio e pepe: ha vinto il cacio e pepe, pure i giapponesi se lo mangiavano!’.

Intervistare chef Colonna è come affrontare un fiume in piena: il problema è rintracciare l’onda giusta, perché la passione lo porta a parlare di tutto e di più. Che poi passione non è nemmeno la parola giusta: ‘Mi fa ridere chi dice che sono appassionato. La passione mica basta, serve l’agonismo, serve la rabbia, quella bella’. Perché non è come in un campionato di calcio, dove ‘puoi anche perdere qualche partita ma poi arrivi a degli obiettivi. In un campionato di cibo, gestendo cioè un ristorante come il mio, se perdi una partita è la fine, perché la risonanza è completamente diversa’.

La partita, oggi, chef Colonna la gioca su due campi diversi. È un po’ come ‘distinguere lo stornello da un concerto: la sera è Colonna in concerto, di giorno vi faccio uno stornello romanesco’. L’idea è sviluppata presso il Palazzo delle esposizioni di Roma, dove convivono due spazi differenti, quello dell’Open e quello del Ristorante Colonna: all’Open ‘servo 200 coperti al giorno con quella formula che chiamo City Lunch’, cioè pranzi veloci, a buffet, a prezzi contenuti (‘faccio mangiare bene a 15, 20, 30 euro’). La sera, negli spazi del ristorante, ‘vivi un’esperienza, stai quattro ore a tavola e arrivi a certe cifre anche perché apri bottiglie che non apri a pranzo, dove ormai la vendita di vino è zero’. A questo si aggiunge un terzo campo di gioco, il Ristorante Antonello Colonna presso il Vallefredda Resort di Labico, che abbraccia la raffinatezza stellata delle sere romane, solo con un tocco rustico in più.

Quest’ultimo progetto è quello ‘che ho sognato da bambino e che ho ribattezzato farmer chef: è la concretizzazione del bisogno estremo di creare un luogo che faccia propria l’evoluzione dell’orto, dell’agro-biodiversità, degli allevamenti etici, della ricerca’. La fattoria fornisce dunque le materie prime alla cucina, ‘però, nonostante i miei 50 ettari, sono testimone del fatto che non tutto può provenire dalle mie terre, è matematicamente impossibile. Quindi ci tengo a dire ai nostri ospiti di guardarsi dai simpatici cialtroni’, quelli che cavalcano ‘la moda del chilometro zero, della filiera corta’.

Qui però emerge un’altra caratteristica di Antonio Colonna: guardare sempre al futuro possibile, per essere preparato qualora emergano nuove tendenze, o anche per anticiparle e promuoverle: ‘Io sono un trasformista, mi contraddico per migliorarmi, torno sui miei passi. Negli anni Ottanta sono stato una sorta di cofondatore di Slow Food. Ora però, pur non rinnegando il territorio, sto mettendo un po’ tutto in discussione. Quando a 28 anni ho aperto il mio primo ristorante, che poi prese la stellina Michelin, il mio carrello dei formaggi aveva 40 formaggi, c’era il meglio del mondo; andavo anche in Scozia a recuperare il blue stilton. Oggi ritengo che sia un peccato che chef come noi non vadano alla ricerca di biodiversità su tutto il territorio nazionale. Ecco, sto tornando sui miei passi, almeno in parte’.

Non è escluso, insomma, che ci sia un’inversione di tendenza. Anche perché ‘all’ultimo convegno di Pollenzo – e Slow Food in questo è come il Vaticano per i Cristiani – Carlo Petrini ha rimesso in discussione un po’ di cose. Lui sostiene addirittura che piuttosto che fare male un prodotto in Italia, è meglio che qualcuno lo faccia bene all’estero’.

C’è un altro elemento del passato che potrebbe tornare: ‘Negli ultimi anni è stata esaltata la figura dello chef, ma quando ho cominciato a fare questo mestiere – avevo 16 anni e la mia prima esperienza fu al Danieli di Venezia – il centro era la sala, il vero padrone di casa era il maitre, che cucinava un 20-30% davanti al cliente. Il cuoco era una figura generosa come la disegnano ancora i bambini, col pancione, col faccione da scemo. La cucina degli ultimi 30 anni ha sgombrato la sala, lasciandole un ruolo da sommelier, tutte le altre figure sono morte. Oggi se chiedi a un ragazzo di sala di fare un filetto alla tartara, non è capace; se gli chiedi di sbucciare la frutta davanti all’ospite o di sfilettare un piccione o un’anatra, non è capace. Io invece questa storia non l’ho abbandonata, ce l’ho lì. E se Mogol ancora continua a far piangere quattro generazioni, io adotto la filosofia di Mogol, che è molto più grande di me. Quindi se ci sarà un ritorno a certe tradizioni, io sono pronto, gli altri non so’.

All’interno di questo panorama mutevole resta fondamentale l’educazione del pubblico: ‘Io non sono un esterofilo né voglio vivere di ricordi, io sono un uomo moderno e nella mia modernità distinguo le tradizioni dalle abitudini e dalle cattive abitudini. Oggi, per motivi di informazioni un po’ becere, si sta navigando in cattive abitudini. La scomparsa del carrello dei dolci, ad esempio, è sbagliata’.

Questo sguardo d’insieme, che non trascura la dimensione storica, nutre la rabbia sana, il fiume in piena di Antonello Colonna: ‘Ultimamente sto più dietro i microfoni che dietro le padelle, però il microfono per me rappresenta quello che ha rappresentato la padella per 30 anni: la rivoluzione oggi si fa dietro i microfoni, bisogna parlare, dire, spiegare a tutti, anche ai bambini nelle scuole’.