Lucas Bravo

Lucas Bravo

La popolarità gli è arrivata all’improvviso, tanto che fa ancora fatica a metabolizzarla. Alla sua prima prova da protagonista, nel film “Libre”, è un ladro gentiluomo nella Francia degli anni ’80. Affascinante e spirito libero, un po’ come lui

Photo by Tristan Fewings/Getty Images
di Simona Santoni

Occhi d’oceano e sorriso gentile, Lucas Bravo sembra ancora incredulo del successo piovutogli addosso. «Non so se l’ho ancora metabolizzato», ci dice l’attore francese, di bellezza pulita ed evidente. Che sfoggia con charme scanzonato nel suo primo film da protagonista assoluto, Libre di Mélanie Laurent, dal 1° novembre su Prime Video.

36 anni e un inizio di carriera tra piccole parti e lavori da modello, dal 2020 la svolta con Emily in Paris, la serie tv in cui interpreta lo chef vicino di casa e di cuore della protagonista. Da lì una tripletta di film notevoli: prima è stato il giovane fidanzato di Julia Roberts, rivale di George Clooney in Ticket to Paradise (mica male!). Quindi eccolo contabile di Dior ne La signora Harris va a Parigi, accanto a Isabelle Huppert e Lambert Wilson. Poi si è ritrovato stupratore sociopatico in Les Femmes au balcon di Noémie Merlant, fuori concorso a Cannes.

Figlio del calciatore francese Daniel Bravo, ex Paris Saint-Germain e Parma, e della cantante Eva Bravo, Lucas ha avuto ha che fare con la fama sin da piccolo, ma questo non gli ha impedito di coltivare uno spirito ribelle e anticonvenzionale, che tuttora conserva. E che pervade il suo personaggio in Libre. Qui è Bruno Sulak, ladro gentiluomo affascinante e spericolato, nemico pubblico numero 1 nella Francia degli anni ’80. Soprannominato “l’Arsenio Lupin delle gioiellerie”, era un bandito affabile che non usava violenza, senza sangue sulle mani.

Lucas Bravo
Credits: Prime Video
Lucas Bravo nel film “Libre”

Ecco la nostra intervista a Lucas Bravo.

Lucas Bravo, com’è nata la tua partecipazione a Libre? Cosa ti è piaciuto e perché hai detto sì?

«È stata Mélanie (Laurent, ndr) a offrirmi il ruolo, si è fidata di me. Non sono ancora a un punto della carriera in cui posso dire a che progetto voglio partecipare. Mélanie mi ha fatto questo regalo. Io volevo solo rendere giustizia a Bruno ed essere all’altezza della fiducia riposta in me.

Mélanie è un’artista straordinaria che seguo da sempre. La amo fin dal suo primo film, sia come attrice che come regista. Essere nel suo sguardo, con la sua finezza, il suo rigore e l’amore che infonde nel cinema, è stata un’opportunità. È sicuramente uno dei ruoli più belli che abbia mai interpretato».

Bruno Sulak è un personaggio intrigante, lontano dagli stereotipi del ladro. È luminoso, gentile e leale. Ama la libertà e il vento sulla pelle. C’è qualcosa di lui che ti somiglia?

«Credo che abbiamo un simile modo camaleontico di essere. Da piccolo ho viaggiato molto dietro a mio padre calciatore e, in ogni città, volevo perdere rapidamente lo status di nuovo arrivato. Nelle dinamiche di gruppo, sapevo identificare il pezzo mancante del puzzle e poi… prendevo la forma di quel pezzo.

C’era un lato camaleontico anche in Bruno perché, confrontandomi con le persone che l’hanno conosciuto che sono ancora in vita, compreso il commissario Moréas, tutti ne parlano in modi diversi. Ho così capito che con ognuno giocava un gioco diverso e mi sono riconosciuto in ciò.

Inoltre, amava le parole. E anch’io ho un amore profondo per le parole: amo scrivere, amo il fatto che una determinata parola sia scelta per un preciso motivo. Non mi sento schiavo del linguaggio, sento che è al mio servizio. E questa è una benedizione. Mi piace scegliere le parole giuste. Anche Bruno era così: aveva una penna straordinaria. Scriveva pamphlet, racconti o addirittura poesie per la rivista L’autre journal, che raccoglieva gli scritti dei prigionieri. Era sublime».

Lucas Bravo
Photo by Francois Durand/Getty Images
Lucas Bravo alla Paris Fashion Week, 22 giugno 2023

A tuo modo sei un po’ hippie?

«Ho partecipato a cinque Burning Man (il festival nel deserto luogo di libera espressione e sperimentazione sociale, ndr), non so se questo faccia di me un hippie. Comunque sono un grande campeggiatore, mi piace la natura, mi piace piantare la tenda in qualsiasi posto.

Sono stato in Alaska, sul bus del film Into the Wild, prima che lo rimuovessero. Mi piace l’avventura, non ho affatto paura di lasciare il mio nido e di andare incontro alla gente, anche da solo. Anzi, soprattutto da solo».

È il tuo primo ruolo da protagonista. Come hai vissuto questa esperienza?

«L’ho adorata. All’inizio mi sono chiesto: “Non sarà troppo presto? Non è meglio restare nella mia piccola zona di comfort, interpretando questi personaggi che entrano ed escono e sono un po’ un sollievo comico o un interesse amoroso, qualcosa di etichettato?”. Non sapevo se avevo la stoffa per farlo. Ma Mélanie mi ha lasciato dominare la scena, mettendomi a mio agio. Mi piace avere più responsabilità.

Mi è piaciuto anche gestire le dinamiche di gruppo, accogliere gli altri attori, creare qualcosa insieme e dare il tono alle riprese. Anche se, ovviamente, è stata Mélanie a dare il tono a ogni ciak, su set sempre pieni di gentilezza. Ho amato il fatto di essere presente ogni giorno, di avere accesso a tutte le riprese, di poter vedere tutto ciò che è stato girato: mi ha permesso di adattare la mia interpretazione al resto del cast. C’è stata anche molta improvvisazione. Tutto questo ha reso il film realistico e organico. E anche ricco d’amore».

Quali sono gli attori a cui ti ispiri?

«Ho un culto per Denzel Washington. E anche per Kevin Costner, perché il mio primo io cinematografico è stato Balla coi lupi. Mi piace Sean Penn, soprattutto come regista: sono un fan di Into the Wild e della sua intera filmografia. Mi piace molto Tom Ford come regista: ho adorato A single man e, di conseguenza, Colin Firth. E poi William Defoe. Adoro quello che sta facendo Robert Pattinson e il suo lavoro con i fratelli Safdie.

La lista continua e potremmo parlarne per tutta la notte. Abbiamo grandi talenti e spiriti e questo è positivo, lo trovo energizzante e rinfrescante. Almeno negli Stati Uniti. In Francia non siamo ancora entrati nel vivo del movimento, ma ho l’impressione che ci stiamo arrivando. Ci sono molte persone di talento, che hanno visione ed energia, che vogliono alzarsi la mattina e creare, senza paura di fallire».

Lucas Bravo
Credits: Prime Video
Lucas Bravo nel film “Libre”

Cosa ti ha lasciato Libre? Ti ha aiutato a esplorare il tuo lato più temerario?

«Sì. Ho anche tenuto per circa due mesi l’acconciatura mullet di Bruno, che però non invecchia bene. E quando i capelli sono cresciuti, mi sentivo come in Say you, say me di Lionel Richie, con le spalline anni ’80», sorride Lucas Bravo.

«Da Libre ho portato con me anche l’integrità e i principi di Bruno. Era una persona che manteneva sempre la parola data, era sempre presente e puntuale. Quando diceva “tornerò” o “lo farò”, manteneva l’impegno. Ultimamente ho cercato di ritmare la mia vita intorno a questi valori e questo ha cambiato molte cose. Mi ha aiutato a guarire da certe situazioni, a liberarmi di certi demoni».

In Libre indossi look semplici anni ’80. Qual è il tuo rapporto con la moda e come ti piace vestirti?

«È un rapporto strano perché sono molto indeciso. I miei gusti e colori cambiano spesso, a seconda dell’umore, del giorno, del periodo, della lunghezza dei capelli, della barba… Vale lo stesso per la musica e il cinema: non ho una preferenza precisa. So che c’è qualcosa di buono in ogni cosa se si è ricettivi.

I vestiti sono una sorta di armatura e allo stesso tempo portano con sé un messaggio. Con essi ci si protegge dal mondo e al contempo si comunica al mondo le proprie intenzioni. Mi vesto tutto di nero perché è sobrio, non voglio distinguermi, ma voglio comunque essere elegante. Uso il colore perché sono vivo. Ci sono tanti messaggi e piccoli espedienti che rendono il proprio abbigliamento una lettera.

A volte però mi sento sopraffatto. Non voglio essere letto, quindi cerco un look un po’ trasandato, e anche questo manda un messaggio. Credo dipenda dal mio lato ribelle, che ho conservato. Non voglio essere etichettato e nella moda è difficile non essere definiti».

Lucas Bravo
Credits: Netflix
Lucas Bravo

Sei diventato famoso all’improvviso. Come vivi il successo oggi?

«“Famoso” è una parola grossa. Ho avuto visibilità, sì, da un giorno all’altro. È stato davvero molto strano da metabolizzare e non so se ho finito di farlo. Sto cercando di prenderne le distanze il più possibile. La mia vita è la stessa di prima: sto con i miei amici più stretti, con i miei genitori, vivo in disparte.

Da un punto di vista professionale, sì, ovviamente ora ho accesso a più possibilità. Invece di essere un pezzo di carta in fondo a una pila, ho potuto incontrare direttamente registi e direttori di casting. Ho potuto lavorare con persone che ammiravo da tempo. Ma dal punto di vista privato è tutto come prima,  con qualche ansia in più, di tanto in tanto. A volte mi faccio prendere dal corso…».

Cioè?

«Per un anno intero sono stato molto attento all’immagine che avevo, a ciò che proiettavo, al fatto di essere riconoscibile. Troppo. Era la prima volta che accoglievo queste sensazioni e si era instaurata una sorta di paranoia perché, in effetti, non è vero che la gente pensa a te tutto il giorno. Ma si vive un po’ questa situazione perché all’improvviso c’è un’esplosione e questo altera un po’ i sensori.

Ricordo che un paio di anni fa ero a un festival organizzato da alcuni amici. Erano le 23 circa e mi sono lasciato un po’ andare. Sono stato riconosciuto dalla folla e sono stato immediatamente riportato a me stesso, alla mia condizione, al personaggio che stavo interpretando. In momenti come questo, non so se devo essere all’altezza delle aspettative e quali sono le aspettative. Mi ha paralizzato. Quindi ora cerco di rimanere abbastanza distante da tutto ciò».

Lucas Bravo
Photo by Dominique Charriau/WireImage
Lucas Bravo al Cabourg Film Festival, 16 giugno 2022

In Libre parli anche italiano. Tuo padre ha giocato nel Parma: hai vissuto in Italia e com’è stato?

«Mio padre ha lasciato Parigi nel 1995. Ha firmato per il Parma nell’epoca del grande Parma. In porta c’era Buffon, davanti Cannavaro e Thuram, in attacco Chiesa e Crespo. A centrocampo Dino Baggio. Era una squadra straordinaria. L’anno successivo vinsero la Coppa Uefa. Ci siamo stabiliti a Parma, una piccola Firenze, una città museo. Nei giorni delle partite, tutta la città convergeva verso lo stadio: era un’immagine fantastica. Incontravo compagni di scuola o prof, avevamo bandiere e cappellini, ci salutavamo a vicenda. È lì a Parma che è nato il mio amore per il calcio, mai provato in tutti gli anni a Parigi, Nizza e Monaco.

Mi hanno iscritto a una scuola cattolica italiana, molto vicino a casa. A 8 anni sei una spugna e ho imparato l’italiano in un mese. Per sopravvivenza, perché era l’unica cosa da fare. La prima parola che mi hanno detto è stata “calcio”. Ero al parco giochi, con tutti questi ragazzini con le giacchette blu e piccoli colletti bianchi abbottonati. Era la prima volta che andavo a scuola con una divisa: nella foto di classe che ho trovato poco tempo fa, sono l’unico a non indossare un colletto bianco.

Questi ragazzini sono arrivati con un pallone di gommapiuma e mi hanno detto “calcio, calcio”. Tutto è iniziato da lì. Abbiamo iniziato a dialogare con i piedi. Sono stati gli anni più felici della mia infanzia».

Conservi quindi un bel ricordo dell’Italia.

«Sì, crescere in Italia, a quell’età, è stato magico. Mangiare il panettone a Natale, i Pan di stelle, e poi visitare la fabbrica del Parmigiano con la gita scolastica, vedere le diverse fasi della lavorazione, i grandi corridoi…. Il prosciutto: è quello che mi manca di più ora che non mangio più carne.

In Italia c’è un grande calore, un’atmosfera mediterranea. È nella cultura, è nella musicalità della lingua. È nella generosità del cibo. Le pizze, la pasta fresca al dente, i tartufi bianchi di Alba. Parlo solo di cibo ma è davvero un Paese ricco. Mi ha dato la vita. Mi ha dato colore e sapore. E anche alla mia famiglia. È stato il Paese più difficile da lasciare. Quando mio padre ha firmato per il Marsiglia, ci è voluto un anno per superarlo. Ho ancora lì i miei migliori amici».