La realtà (virtuale) di Omar Rashid

La realtà (virtuale) di Omar Rashid

Teatro e digitale: un rapporto inedito, ma che ora trova sfogo creativo grazie ad Omar Rashid ed Elio Germano, artefici-protagonisti di “Segnale d’allarme – La mia battaglia VR”, uno spettacolo-evento che ora, dal Teatro Franco Parenti di Milano approderà a Genova Reloaded. Nel frattempo, però, l’artista toscano ha già in cantiere altri progetti ambiziosi.

di Andrea Giordano

Teatro e digitale, un rapporto ai limiti, eppure, oggi, più che mai vicino in termini di immersione grazie alla realtà virtuale, e a uno dei personaggi che maggiormente lo stanno sperimentando, Omar Rashid. ‘Estremamente nerd’, come si definisce il 41enne artista, assistant designer (lo è stato per Givenchy e Zoo York) regista e produttore toscano, che, però, dalla laurea al Polimoda di Firenze (era il 2002), non ha abbandonato l’idea di fare il salto nell’audiovisivo, fondando così Gold, un progetto multimediale ad ampio raggio, senza mai tradire il fascino proveniente dal mondo dei graffiti e un certo tipo di controcultura.

E così, qualche anno fa, ha scoperto la VR (Virtual Reality) e ne ha assimilato il linguaggio, tanto da aver creato, insieme a Elio Germano, uno degli spettacoli–evento degli ultimi tempi, Segnale d’allarmeLa mia battaglia VR. Protagonisti “a distanza” al Teatro “Franco Parenti” di Milano (fino al 9 luglio), la prossima tappa, li vedrà invece, dal 10 al 12 luglio, tra gli ospiti di Genova Reloaded, festival prodotto da Circuito, con la direzione artistica di Giorgio Viaro. Un’esperienza tra immaginario e reale, capace, attraverso i visori, di esplorare nuovi scenari, e portarci in un territorio tutto da (ri)scoprire.

Come possiamo definire questo spettacolo?
È una trasposizione, non una ripresa, di uno spettacolo, e ci teniamo a specificare che è un progetto creato ad hoc, con le accortezze del caso, sia di testo, che di scrittura, il disegno, le luci, le comparse. Il pubblico ora entra e partecipa, c’è un posto ogni tre, ci si mette il visore e si vede la proiezione, succede 2-3 volte al giorno, poi tra un cambio di pubblico e l’altro avviene ovviamente il processo di sanificazione, tramite raggi UV, e la ricarica della batteria. Abbiamo puntato ad esserci fisicamente fino a un certo punto, perseguendo un concetto: farlo crescere da solo, come se fosse un film. A marzo, prima del lockdown, avevamo già il sold out, adesso stiamo recuperando quelle date, altre se ne aggiungeranno, il calendario si sta facendo molto fitto di richieste. Fortunatamente questa tecnologia è la più facile da far ripartire perché il distanziamento non viene visto come un problema, anzi, diventa quasi un contenuto se vuoi.

Cosa fa la differenza alla fine?
L’intento è porre domande in maniera naturale, toccando temi diversi, creando dibattito e volontà di confronto fra gli spettatori, quanto meno invitiamo a farlo in fondo ad ogni esperienza. Il nostro approccio alla tecnologia è da considerarsi meta-narrativo. Nel primo lavoro, No Borders, infatti, assistevamo all’assenza di frontiere, anche visive, spingendoci nei centri d’accoglienza, era un doppio gioco, entrare in un luogo inaccessibile, privo di barriere della cornice, poi è arrivato appunto Segnale d’allarme, che, oltre al contenuto, muove proprio una critica allo stesso mezzo tecnologico. La cosa ha funzionato, tanto da essere già proiettati su nuove idee.

Del tipo?
Si tratterà di un classico teatrale e coinvolgerà più persone, ma dobbiamo fare dei test, che potrebbero anche non funzionare, quindi prima di entrare nel dettaglio vogliamo essere sicuri e capire meglio come muoverci. Viviamo ancora una fase embrionale, ma credo che qui potremmo portare lo spettatore in scena, cercando il testo giusto. In realtà un terzo lavoro è già pronto, e ci piacerebbe ufficializzarlo presto.

Di cosa parla?
Si chiama The Italian Baba. Racconta la trasposizione, in realtà virtuale, del libro di Folco Terzani (figlio di Tiziano Terzani, ndr), A piedi nudi sulla terra, dove peraltro Elio presta la voce a Baba Cesare. Anche qui, cosa cerchiamo di narrare? L’aspetto illuminato dell’isolamento, e questo mezzo, il visore, fine a se stesso, che però ha dei risvolti ovviamente positivi. Siamo stati in India per documentarci, prima nel 2016, insieme a Folco, girando in quei luoghi, solo con una piccola telecamera, e poi nel 2018. In quell’occasione tornammo più attrezzati, volevamo riportare Baba Cesare a Goa nell’Ashram, poi, però, non venne. Dovevamo rimediare e siamo riusciti a farlo grazie a questo modo di vedere le situazioni: la bellezza della VR sta nel riprendere cosa succede, costruire, andando comunque avanti con una idea, e alla fine il girato è stato di 60 ore, se ne vedranno 20 minuti, ma dietro c’è stato un percorso davvero lungo e pieno di aspetti.

Il coinvolgimento di Elio quando, e perché, è avvenuto?
Ci conoscevamo già, entrambi siamo legati ad un background hip-hop e siamo vicini alla cultura underground, quindi per quello anche io sono sempre stato appassionato di cinema fin da ragazzino, il mio sogno era proprio lavorare in questo mondo. E quindi, quando nel 2015 ho scoperto la realtà virtuale, lui è stata la prima persona a cui ne ho parlato, per affinità di intenti e visione, quindi abbiamo deciso di intraprendere un percorso insieme.

Se dovessi pensare a un altro personaggio da poter coinvolgere, chi ti viene in mente?
Pierfrancesco Favino
, o magari Gaspar Noè, potrebbe essere molto interessante.

Dove nasce la passione per la VR?
Il clic lo devo a mio cognato, lui lavora nelle nuove tecnologie da sempre, abbiamo fatto varie cose insieme, ma grazie a lui ho potuto capire le reali potenzialità. Da lì non ho più smesso di sperimentare. La realtà virtuale esiste da anni, ma ad attrarmi è stata la forma video, ed è lì che mi focalizzo, come singolo, come azienda, amiamo ricostruire insomma, fare cose maggiormente lineari, e non limitare l’interazione, ma anzi, ampliarla a 360°. L’obiettivo è padroneggiare bene il linguaggio, evolverlo, sfruttarlo al massimo. In questo momento siamo solo a un milionesimo di ciò che potremmo fare, eppure lì dentro c’è un mondo da esplorare, anche negli errori da correggere.

So che la chiusura forzata ti ha invece stimolato qualcosa di molto particolare.
È vero, in effetti c’è un progetto, lo abbiamo mandato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (che da qualche anno ha una sezione competitiva legata alla realtà virtuale, ndr), attendiamo risposte. Si chiama Lockdown 2020: l’Italia invisibile, lo abbiamo realizzato insieme alla Rai, si vedranno cinque piazze italiane completamente deserte, Firenze, Roma, Milano, Napoli e Venezia, e altri angoli, il tutto accompagnato dalle poesie scritte appositamente da Laura Accerboni, e una parte di prosa, con due lettori – narranti, Vincio Marchioni e Matilde Gioli. Lo ripeto: nei nostri lavori vogliamo dare un contenuto, ma nello stesso tempo far venire voglia di togliersi il visore e andare fisicamente in quei luoghi.

A Genova Reloaded, affiancherete nuovamente Segnale d’Allarme, una bella occasione per vedervi di persona. Esiste un passo successivo al rapporto tra teatro e digitale?
Il testo era perfetto e complesso al punto giusto per più trasposizioni, diciamo che stiamo lavorando anche su una versione cinematografica. Altre regole, ma vogliamo giocare! Nel teatro, in questo caso specifico, c’è la “manipolazione” del pubblico, la clac stimolata da alcune comparse sparpagliate, mentre in VR ne sei circondato. Al cinema proveremo a muoverci maggiormente sul montaggio, ma non vogliamo sostituire l’opera teatrale. Segnale d’Allarme, al contrario, nasce dalla volontà di trascendere quel linguaggio e quindi realizzare qualcosa che lì non potresti, lo viviamo solo come una forma di espansione mediatica, che deve comunque necessariamente crescere.

Non c’è un autore (teatrale) che si potrebbe “prestare” a questa formula?
Shakespeare, lui continua a parlare col pubblico, mi piacerebbe esplorarlo, ma ripeto, il cinema non si è “mangiato” il teatro, forse sì un po’ di pubblico, così come le piattaforme e il cinema. L’aspetto cruciale è come li valorizzi. Una serie tv perde forza sul grande schermo, mentre se devo scegliere di vedere una pellicola di Christopher Nolan, so dove andare se voglio vivere l’emozione allo stato puro.

Parliamo della tua formazione: come si compone?
Tutto parte dalla passione per il cinema presa da mia madre, in primis, che da piccolo mi faceva vedere i film di Alfred Hitchcock, e dalle storie, quelle che amo di più. Adoro Quentin Tarantino e poi ovviamente dai fumetti, ne ho letti a decine, in particolare quelli dei supereroi, quindi Marvel e DC, il mio preferito rimane Watchmen, e molti manga, l’universo Bonelli con Dylan Dog. Sono un onnivoro.

E la tua anima da writer?
Nasce a 15-16 anni, nel pieno degli anni ‘90, un momento storico per questa cultura. Rivendico sempre il fatto che nessuno di noi aveva un fine commerciale, era una voglia d’espressione pura, il desiderio di affermarsi come artista. Lì ho imparato la determinazione. Ricordo una volta a Firenze, in Piazza delle Cure, c’era una cavalcavia, senza punti di fuga, e uno spazio ben preciso, beh me lo sono studiato per mesi e dopo ce l’ho fatta. Non esiste nessuna scuola ad insegnartelo.

Secondo te Bansky vi rappresenta al meglio?
Mi piace, sì, ha l’approccio giusto, purtroppo è diventato commerciale per motivi esterni a lui, e per via di quelli che che si riempiono la bocca senza neanche conoscere ciò che ha fatto, l’ha deciso il mercato, quindi non ha colpe. Ma fra tutti gli street artist è quello che comunque ha mantenuto un percorso netto, mantenendo l’anonimato, davvero un valore aggiunto, anche se nel mondo la sua identità è nota…

Svelacelo.
Conosco alcuni elementi della sua crew, ma non ho mai voluto scoprirlo per mantenere viva la magia (sorride, ndr).